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LXIII.

Morgante a la ventura a un saetta;
Appunto ne l'orecchio lo 'ncarnava:
Da l'altro lato passò la verretta,
Onde il cinghial giù morto gambettava;
Un altro, quasi per farne vendetta,
Addosso al gran gigante irato andava;
E perchè e' giunse troppo tosto al varco,
Non fu Morgante a tempo a trar con l'arco.

LXIV.

Vedendosi vonuto il porco adosso,

Gli dette in su la testa un gran punzone
Per modo che gl'infranse insino a l'osso,
E morto allato a quell'altro lo pone:
Gli altri porci veggendo quel percosso,
Si misson tutti in fuga pel vallone;
Morgante si levò il tinello in collo,

Ch'era pien d'acqua, e non si move un crollo.

LXV.

Da l'una spalla il tinello avea posto,
Da l'altra i porci, e specciava il terreno;
E torna a la badía, ch'è pur discosto,
Ch'una gocciola d'acqua non va in seno.
Orlando che'l vedea tornar sì tosto
Co' porci morti, e con quel vaso pieno;
Maravigliossi che sia tanto forte;
Così l'abate; e spalancan le porte.

LXVI.

I monaci veggendo l'acqua fresca
Si rallegrorno, ma più de' cingiali;
Ch’ogni animal si rallegra de l'esca;
E posano a dormire i breviali;

Ognun s'affanna, e non par che gl'incresca,
Acciò che questa carne non s'insali,

E che poi secca sapesse di victo:
E la digiune si restorno a drieto.

LXVII.

E ferno a scoppia corpo per un tratto,
E scuffian, che parien de l'acqua usciti;
Tanto che'l cane sen doleva e'l gatto,
Che gli ossi rimanean troppo puliti.
L'abate, poi che molto onore ha fatto
A tutti, un dì dopo questi conviti
Dette a Morgante un destrier molto bello,
Che lungo tempo tenuto avea quello.

LXVIII.

Morgante in su'n un prato il caval mena,
E vuol che corra, e ehe facci ogni pruova,
E pensa
che di ferro abbi la schiena,
O forse non credeva schiaccier l'uova:
Questo caval s'accoscia per la pena,
E scoppia, e'n su la terra si ritruova.
Dicea Morgante: lieva su, tozzone;
E va pur punzecchiando co lo spronę.

LXIX.

Ma finalmente convien ch' egli smonte,
E disse: io son pur leggier come penna,
Ed è scoppiato; che ne di' tu, conte?
Rispose Orlando: un arbore d'antenna
Mi par piuttosto, e la gaggia la fronte:
Lascialo andar, che la fortuna accenna
Che meco appiede ne venga, Morgante.
Ed in così verrò, disse il gigante.

LXX.

Quando serà mestier, tu mi vedrai
Com'iomi proverò ne la battaglia.
Orlando disse: io credo tu farai
Come buon cavalier, se Dio mi vaglia;
Ed anco me dormir non miterai:

Di questo tuo caval non te ne caglia:
Vorrebbesi portarlo in qualche bosco;
Ma il modo nè la via non ci conosco.

LXXI.

Disse il gigante: io il porterò ben 'io,
Da poi che portar me non ha voluto,
Per render ben per mal, come fa Dio;
Ma vo' che a la porlo addosso mi dia ajuto.
Orlando gli dicea; Morgante mio,
S'al mio consiglio ti sarai attenuto,
Questo caval tu non ve'l porteresti,
Che ti farà come tu a lui facesti,

LXXII.

Guarda che non facesse la vendetta,
Come fece già Nesso così morto:

Non so se la sua istoria hai inteso o letta;
E' ti farà scoppiar; datti conforto.
Disse Morgante: ajuta ch'io me'l metta
Addosso, e poi vedrai s'io lo porto:
Io porterei, Orlando mio gentile,
Con le campane la quel campanile.

LXXIII:

Disse l'abate: il campanil v'è bene;
Ma la campane voi l'avete rotte.
Dicea Morgante, e'ne porton le pene
Color che morti son là in quelle grotte;

E levossi il cavallo in su le schiene,
E disse: guarda s'io sento di gotte,
Orlando, nelle gambe, e s' io lo posso;
E fe' duo salti col cavallo addosso.

LXXIV.

Era Morgante come una montagna:
Se facea questo, non è maraviglia
Ma pure Orlando con seco si lagna;
Perchè pur era omai di sua famiglia,
Temenza avea non pigliasse magagna.
Un'altra volta costui riconsiglia:
Posalo ancor, nol portare al deserto.
Disse Morgante: il porterò per certo.

LXXV.

E portollo, e gittollo in luogo strano,
E tornò a la badía subitamente.
Diceva Orlando: or che più dimoriano?
Morgante, qui non faciam noi niente;
E prese un giorno l'abate per mano,
E disse a quel molto discretamente,
Che vuol partir de la sua reverenzia,
E domandava e perdono e licenzia.

LXXVI.

E de gli onor' ricevuti da questi,
Qualche volta potendo, arà buon merito;
E dice: io intendo ristorare e presto
I persi giorni del tempo preterito:
E'son più dì che licenzia arei chiesto,
Benigno padre, se non ch' io mi perito;
Non so mostrarvi quel che drento sentc;
Tanto vi veggo del mio star contento.

LXXVII.

Io me ne potto per sempre nel core
L'abate, la badìa, questo deserto;
Tanto v'ho posto in picciol tempo amore:
Rendavi su nel ciel per me buon merto
Quel vero Dio, quello eterno Signore
Che vi serba il suo regno al fine aperto:
Noi aspettiam vostra benedizione,
Raccommandiamci a le vostre orazione.

LXXVIII.

Quando l'abate il conte Orlando intese,
Rintenerì nel cor per la dolcezza,
Tanto fervor nel petto se gli accese;
E disse; cavalier, se a tua prodezza
Non sono stato benigno e cortese,
Come conviensi a la gran gentillezza;
Che so che ciò ch'i'ho fatto è stato poco,
Incolpa la ignoranzia nostra e il loco.

LXXIX.

Noi ti potremo di messe onorare,
Dì prediche di laude e paternostri,
Piuttosto che da cena o desinare,
O d'altri convenevol' che da chiostri;
Tu m'hai di te sì fatto inamorare
Per mille alte eccellenzie che tu mostri;
Ch'io me ne vengo ove tu andrai con teco,
E d'altra parte tu resti qui meco.

LXXX.

Tanto ch'a questo par contraddizione;
Ma so che tu se' savio, e'ntendi e gusti,
E intendi il mio parlar per discrizione;
De' beneficj tuoi pietosi e giusti

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