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Ch'era figliuol del tristo Ganellone.
Troppo lieto era il figliuol di Pipino:
Tanto che spesso d'allegrezza geme
Veggendo tutti i paladini insieme,.

XI.

Ma la fortuna attenta sta nascosa,
Per guastar sempre ciascun nostro effetto;
Mentre che Carlo così si riposa,
Orlando governava in fatto e in detto
La corte e Carlo Magno ed ogni cosa:
Gan per invidia scoppia il maladetto,
E cominciava un di con Carlo a dire:
Abbiam sempre noi Orlando ad ubbidire?

XII.

Io ho creduto mille volte dirti:
Orlando ha in se troppa presunzione:
Noi siam qui conti, re, duchi a servirti,
E Namo, Ottono, Uggieri e Salamone,
Per onorarti ognun, per ubbidirti:
Che costui abbi ogni reputazione
Nol soffrirem; ma siam deliberati
Da un fanciullo non esser governati.

XIII.

Tu cominciasti insino in Aspramonte
A dargli a intender che fusse gagliardo,
E facesse gran cose a quella fonte;
Ma se non fusse stato il buon Gherardo,
In so che la vittoria era d'Almonte;
Ma egli ebbe sempre l'occhio a lo stendardo:
Che si voleva quel di coronarlo;

Questo è colui ch❜ba meritato, Carlo.

XIV.

Se ti ricorda già sendo in Guascogna,
Quando e' vi venne la gente di Spagna,
Il popol de' cristiani avea vergogna,
Se non mostrava la sua forza magna.
Il ver convien pur dir, quando e'bisogna;
Sappi ch'ognuno imperador si lagna:
Quant'io per me, ripasserò que' monti
Ch'io passai'n qua con sessantaduo conti.

XV.

La tua grandezza dispensar si vuole,
E far che ciascun abbi la sua parte:
La corte tutta quanta se ne duole:
Tu credi che costui sia forse Marte?
Orlando un giorno udì queste parole,
Che si sedeva soletto in disparte:
Dispiacquegli di Gan quel che diceva;
E molto più che Carlo gli credeva.

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E volle con la spada uccider Gano;
Ma Ulivieri in quel mezzo si mise,
E Durlindana gli trasse di mano,
E così il me' che seppe gli divise.
Orlando si sdegnò con Carlo Mano,
E poco men che quivi non l'uccise;
E dipartissi di Parigi solo,

E scoppia e❜mpazza di sdegno e di duolo.

XVII.

Ad Ermellina moglie del Danese

Toise Cortana, e poi tolse Rondello;

E'en verso Brava il suo cammin poi prese,

Alda la bella come vide quello,

Per abbracciarlo le braccia distese.

Orlando, che ismarrito avea il cervello, Com'ella disse: ben venga il mio Orlando: Gli volle in su la testa dar col brando.

XVIII.

Come colui che la furia consiglia,
Egli pareva a Gan dar veramente:
Alda la bella si fè maraviglia:
Orlando si ravvide prestamente:
E la sua sposa pigliava la briglia,
E scese dal caval subitamente;
Fd ogni cosa narrava a costei,
E ripososi alcun giorno con lei.

XIX.

Poi si partì portato dal furore,
E terminò passare in Paganía;
E mentre che cavalca, il traditore
Di Gan sempre ricorda per la via:
E cavalcando d'uno in altro errore,
In un deserto truova una badía
In luoghi oscuri e paesi lontani,
Ch'era a' confin' tra cristiani e pagani.

XX.

L'abate si chiamava Chiaramonte,
Era del sangue disceso d'Anglante:
Di sopra a la badia v'era un gran monte,
Dove abitava alcun fiero gigante,

De'quali uno avea nome Passamonte,
L'altro Alabastro, e'l terzo era Morgante:
Con certe frombe gittavan da alto,

Ed ogni di facevan qualche assalto.

XXI.

I monachetti non potieno uscire
Del monistero o per legne o per acque:
Orlando picchia, e non volieno aprire,
Fin che a l'abate a la fine pur piacque;
Entrato drento cominciava a dire,
Come colui, che di Maria già nacque
Adora, ed era cristian battezzato,
E com'egli era a la bandia arrivato.

XXII.

Disse l'abate: il ben venuto sia:
Di quel ch'io ho volentier ti daremo,
Poi che tu credi al figliuol di Maria;
E la cagion, cavalier, ti diremo,
Acciò che non l'imputi a villania,
Perchè a l'ontrar resistenza facemo,
E non ti volle aprir quel monachetto:
Così intervien chi vive con sospetto.

XXIII.

Quando ci venni al principio abitare
Queste montagne, benchè sieno oscure
Come tu vedi; pur si potea stare
Sanza sospetto, ch'ell' eran sicure:
Sol de le fiere t'avevi a guardare;
Fernoci spesso di brutte paure;
Or ci bisogna, se vogliamo starci,
Da le bestie dimestiche guardarci.

XXIV.

Queste ci fan piuttosto stare a segno
Sonci appariti tre fieri giganti,
Non so di qual paese o di qual regno,
Ma molto son feroci tutti quanti:

La forza e'l malvoler giunt'a lo'ngegno

Sai che può'l tutto; e noi non siam bastanti; Questi perturban sì l'orazion nostra,

Che non so più che far, s'altri nol mostra.

XXV.

Gli antichi padri nostri nel deserto,
Se le lor opre sante erano e giuste,
Del ben servir da Dio n'avean buon merto;
Nè creder sol vivessin di locuste:

Piovea dal ciel la manna, questo è certo;
Ma qui convien che spesso assaggi e guste
Sassi che piovon di sopra quel monte,
Che gettano Alabastro e Passamonte.

XXVI.

E'l terzo ch'è Morgante, assai più fiero,
Isveglie e pini e faggi e certi e gli oppi,
E gettagli infin qui; questo è pur vero;
Non posso far che d'ira non iscoppi.
Mentre che parlan così in cimitero,
Un sasso par che Rondel quasi sgroppi;
Che da' giganti giù venne da alto
Tanto, ch'e' prese sotto il tetto un salto.

XXVII:

Tirati drento, cavalier, per Dio,
Disse l'abate, che la manna casca.
Risponde Orlando: caro abate mio,
Costui non vuol che'l mio caval più pasca:
Veggo che lo guarrebbe del restìo:
Quel sasso par che di buon braccio nasca.
Rispose il santo padre: io non t'inganno,
Credo che'l monte nn giorno gitteranno.

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