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tempo ristretto a condurre ricerche che formerebbero la parte più voluminosa del proprio lavoro >>.

Se questo rimpianto può fornir congettura che l'autore stesso comprese come gli sarebbe stato mestieri procedere con metodo diverso da quel che forse necessariamente tenne nel disporre il proprio lavoro, in quello è il miglior indizio della mente sua e del disegno ben proporzionato che forse avrebbe saputo tracciare all'opera propria. Ma il ms. presentato, il quale s'intitola: «Della vita | del tempo e degli scritti | di Guido d'Arezzo | studio storico critico | », contraddistinto col motto:

Est decus humanae naturae musica summum
Quam qui scire negal, ipsum se scire negabit.

non reca altro segno interiore di così giusto proposito. Forma esso un grosso volume alto 0,330, largo 0,231, di 462 pagine delle quali nè le due prime nè l'ultime due son numerate; è rilegato in cartone di colore azzurro col dorso in tela bruna. L'opera va divisa in sei libri, preceduti da una introduzione, nella quale si tocca della nascita e della famiglia di Guido, delle condizioni generali de' secoli di mezzo, dichiarando l'autore ch'egli non intende scrivere pe' dotti « ma sì per coloro, se mai ve ne sono, che tutte o in buona parte le ignorano » (ib. p. 5). Questa parte di compilazione apparisce non abbastanza ordinata nè conducente all'economia del trattato. Vi si afferma che « per essere il colmo della barbarie un indizio sicuro del rinascere della civiltà, ... il secolo decimo va contradistinto da moltissimi storici col nome di secolo del risorgimento, o meglio diremo del risveglio ». Nel primo libro poi l'autore discute la questione se Guido appartenne alla famiglia dei Donati o a quella degli Ottaviani, e le congetture per cui inclina ad imparentare il monaco aretino a quella prima casata non sembrano aver gran valore, argomentand "rincipalmente dal fatto che Guido venne educato in un monastero « ove si raccoglievano appunto a quell'epoca i giovanetti delle più cospicue famiglie d'Italia », per concludere in particolare appartenersi alla nobile stirpe indicata. Discorre poi delle opposizioni che il monaco rinnovatore ebbe a sopportare nel chiostro di Pomposa per l'invidia degli emuli confratelli; e nel secondo libro in una storia della musica percorsa a grandi tratti dalle età più remote sino al secolo undecimo, si dilunga oltre misura, pigliando le mosse fin dalla musica indiana. Così nel terzo libro ancora e nel quarto e nel quinto, esaminando il micrologo ed esordendo dal sistema greco dei tetracordi, considera la natura e la portata dell'invenzione di Guido; nella trattazione della qual materia per quel che riguarda le relazioni che la scienza fisica à con l'arte de' suoni, l'autore nulla aggiunge e nulla toglie a ciò che precedentemente era cognito. Quanto poi all'indagine critica sembra ch'egli ancora s'attenga all'abito della controversia e piuttosto proceda con proposito di panegirista che con rigore di metodo e con serenità scientifica; tanto che mentre avverte fin da principio avere in animo d'aggiungere in appendice o come seconda parte dell'opera sua tutti gli scritti di Guido riscontrati su i migliori codici italiani e stranieri, di questo lavoro ch'egli poteva per la sua biografia considerare piuttosto come preparatorio che come complementare, non apparisce traccia, e solo alla pag. 253 accenna al disegno di mettere le Regulae de ignoto cantu in appendice. Nè v'à niuna

allusione a mss. da lui consultat, se non a un codice cassinese, creduto dal sec. XI, contenente un trattato attribuito a un Giovanni prete, di cui l'autore afferma aver esaminato il capo 92 (ibid. pag. 246); e ad un libro corale della casanatense di Roma, che, secondo l'autore esitando allega, « si crede da chi ne fece l'esame sia stato posseduto probabilmente da Guido medesimo » (ibid. pag. 300).

<< Seguitando poscia a discutere ne! quinto libro la portata delle invenzioni del Monaco, tratta l'autore nel sesto della sua venuta a Roma, poi del ritorno di lui nel chiostro benedettino, probabilmente in quello di Santa Flora e Lucilla o forse in un ospizio che i monaci avevano aperto nella città d'Arezzo o ne'sobborghi limitrofi. Nulla tuttavia determina rispetto al tempo della morte di lui, poi che documenti valevoli a stabilirne la certezza gli fanno difetto.

«È generalmente commendevole in sì prolisso lavoro il grande amore che il biografo mostra del suo soggetto, la perizia che dinota nelle moderne teorie armoniche e una certa facilità d'esporle; ma le vicende della vita di Guido da quest'ampio volume non escono nè cognite in maggior copia nè più certe; nè il punto di vista da cui il critico osserva, segna per certo un progredimento dalla dissertazione dell'Angeloni in poi. Similmente nelle notizie bibliografiche, in quelle relative alla fama di Guido ed all'opere cui diede stimolo tanto l'esagerazione quanto la limitazione della gloria di lui, si lascia un vuoto meno scusabile in lavori speciali, e che avrebbe potuto riempiersi colla semplice consultazione non già della Allemeine Literatur der Musik del Forkel, ma delle opere del Mazzucchelli e del Quadrio alle quali attinse il dotto tedesco. Così non s'incontra cenno a cagion d'esempio, delle avvisaglie, de'primi colpi che la critica del rinascimento recò all'ossequio medievale che, come bene osservò il Coussemaker, aveva in certo modo foggiato di Guido aretino una persona mitica, cui s'ascrivevano e da cui si facevan discendere tutti i progredimenti dell'arte musicale in tempi in cui l'arte operava maravigliosamente, ma non aveva storia. Così l'autore non cita il trattatello del Bursio impresso in Bologna nel 1487 « die ultima aprilis » che incomincia « cum defensione Guidonis aretini adversus quendam hyspanum veritatis prevaricatorem », la cui invettiva contro Bartolomeo Ramis de Pareja fu il preludio della maggior disputa fra lo Spataro e il Gafurio sulla musica importanza dell'Aretino. << Pel complesso di queste ragioni, non ultima delle quali lo stile assai rimesso della parte polemica, la Commissione della r. Accademia opina che il presente scritto non soddisfaccia pienamente alle condizioni ricercate nel programma, e però non possa aver luogo l'aggiudicazione del premio. Decideranno il comune d'Arezzo e le egregie società promotrici del concorso se sia opportuno mantenere aperto l'arringo e dare indispensabile agio di tempo alla perfezione di maggiori studî circa l'argomento che ebbero prediletto. La Commissione tuttavia tributa ampia lode ai pregevoli sforzi dell'autore il quale accenna (lib. IV pag. 217) d'aver anche curato sull'edizione francese data dal Coussemaker, una ristampa italiana del Tonario di Guido; e forse se avrà maggior larghezza di tempo, meglio attingendo, e con più maturo esame all'opere genuine del glorioso monaco, potrà rischiarare di più schietta luce i pregi didattici incontrastabili che a quello appartengonsi; potrà meglio accampare il merito principale di lui d'aver liberato la musica dalle pastoie di teoriche insufficienti con cui tenevasi avvinta al passato; mettendola spedita e libera sopra il pratico sentiero

dell'arte, e forse gli piacerà riconoscere, a conferma bastevole della grandezza di Guido, che a lui e alla sua reputazione toccò nel medio evo quella medesima vicenda di sorte che nell'antichità era toccata ad Anfione e a Terpandro ».

Il Segretario CARUTTI prega i Socî che dovevano presentare Memorie e Note per la inserzione negli Atti, di ciò fare nelle prossime adunanze, a fine di non prolungare di troppo la seduta.

Per invito del PRESIDENTE il Socio STOPPANI legge la seguente sua Nota preliminare: Sull'attuale regresso dei ghiacciai nelle Alpi.

« L'argomento ch' io vengo a trattare, o meglio ad annunciare in questa Nota preliminare, non è punto nuovo, dacchè il sig. Forel, nell'Echo des Alpes dell'anno corrente (') e più recentemente nel fascicolo del luglio degli Archives ginevrini (*), non solo ci venne ad annunciare codesto gran fatto dell'attuale regresso dei ghiacciai alpini, ma imprese ad indagarne, con certa ampiezza di trattazione, le cause. Però l'argomento non sarebbe stato nuovo nemmeno s'io fossi venuto a parlarne all'Accademia, prima che il sig. Forel pubblicasse le sue Note: e questo per mia colpa, benchè l'illustre nostro vicino probabilmente l'ignori; mentre, a partire del 1865 (3), in cui annunciavo il fatto e ne predicevo le conseguenze, non ho lasciato, o in effemeridi, o nelle diverse opere da me pubblicate (*), di chiamare sopra di esso l'attenzione dei geologi e degli alpinisti, tanto io spero da risparmiare agli Italiani dell'avvenire l'uggia di una delle solite rivendicazioni. Che se non ho provveduto finora a raccogliere in apposito scritto le non scarse notizie ed osservazioni in proposito, è da incolparsene dapprima la mancanza di tempo, poi l'idea fissa d'attendere la fine di questa singolarissima fase della climatologia alpina; non so poi con quanto ragionevole speranza, mentre non pare che i nostri fuggiaschi pensino così presto a rifarsi invasori.

<Trattasi dunque di un fatto d'immensa portata per la fisica terrestre e per la geologia. I ghiacciai delle Alpi, che ne adornano i gioghi di così severa bellezza, e danno perenne alimento ai fiumi, e fecondità alle terre di così larga porzione l'Italia, si battono in ritirata da un pezzo, e se natura non provvede, la generazione presente potrebbe assistere alla loro scomparsa.

<< Fu nel 1861, al Congresso della Società geologica francese a St. Jean de Maurienne, ch'ebbi il primo sentore di questo importante fenomeno. Il Monte Bianco era rimasto nudo di nevi cadute nell'anno. C'era chi ne aveva toccato la vetta fin quattro volte in quella estate, tanto agevole ne era divenuta l'ascesa. Il caldo fu sì atroce da sorpassare la massima storicamente conosciuta. Era naturale che a quell'eccesso di calore dovesse imputarsi la scomparsa totale della neve. Potevasi però e dovevasi

(') Les variations périodiques des glaciers des Alpes (Echo des Alpes. Genève, 1881).

(*) Essai sur les variations périodiques des glaciers (Archives des sciences de le Bibliothèque universelle de Genève. Juillet, 1881).

(*) Note ad un corso di geologia, vol. I, § 515. Milano, 1865.

(*) Corso di geologia, vol. I, pag. 231, 234; vol. II, pag. 600. Milano, 1871. agrario di Milano, 1872, n. 7, 8. Lo Spettatore di Milano, 1877, n. 59-63. pag. 553. Milano, 1881. L'éra neozoica. Milano, 1881.

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-L'Eco del Comizio

- Il bel paese, 3a ediz.

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anche chiedere quanta ne fosse caduta d'inverno; ma nessuno, ch'io sappia, se ne preoccupò più che tanto. Eppure sui più noti passaggi alpini la neve invernale raggiunse talvolta a' nostri giorni un'altezza di 15 o 16 metri: talvolta invece fu contenta di pochi centimetri. Quella estate non poteva dunque aver disciolta tutta la neve, perchè poca ne aveva trovata da sciogliere?...

<< Nell'anno seguente (1862) visitavo i ghiacciai dell' Engadina. Mentre cercavo al presente le ragioni del passato, quale fu la mia meraviglia quando vidi il Roseg circondato da un anfiteatro morenico, che pareva sorto lì lì per incanto? Il Roseg era uscito di fresco dalla cerchia della sua morena frontale e, rannicchiato in sè stesso, stava già fabbricandone un'altra. Misurai un regresso di trenta metri all'incirca. Era facile arguire che la ritirata per quel ghiacciajo era già da qualche anno, forse da parecchi, battuta. Il vicino Morteratsch presentava ad un dipresso lo stesso fenomeno.

«Io non starò a descrivere, e nemmeno a numerare i risultati delle mie osservazioni, continuate negli anni successivi. Essi saranno tutti consegnati allo scritto ch'io intendo di presentare all'Accademia. Basti il sapere per ora ch'io non ho trascurato dappoi nessun mezzo per verificare se il fenomeno del regresso continuasse; più se dovesse ritenersi parziale per quello o quell'altro ghiacciajo, od universale pel sistema delle Alpi, e per raccogliere tutti quei dati per cui questa fase singolarissima potesse tornar proficua alla scienza. Visitai i ghiacciai della Valtellina più volte tra il 1864 e il 1867, tenendo dietro specialmente al meraviglioso regresso del Forno sopra S. Caterina; vidi il ghiacciajo di Macugnaga nel 1870 e lo rividi nel 1876; nel 1877 visitavo i ghiacciai dell'Adamello; rivedeva nello stesso anno quelli dell'Engadina; nel 1878 feci il giro del Monte Bianco, e nel 1879 percorsi i ghiacciai del Gottardo e delle Alpi Bernesi. Dovunque lo stesso spettacolo di morene abbandonate o in forma d'anfiteatro sulle fronti dei ghiacciai, a due, a tre, a cinque, arcuate come dighe concentriche sopra un'area tutta sparsa di sfasciume roccioso, o scaglionate a gradini sui fianchi delle valli. Dovunque le rupi denudate, liscie, con solchi e striature parallele: insomma tutto l'apparato che afferma e misura fino all'ultimo centimetro un regresso il quale continua da molti anni. Ho le misure prese direttamente per parecchi dei più grandi ghiacciai; sicchè potrò dire di quanto siano retrocessi e abbassati i ghiacciai di Macugnaga nella Valle Anzasca, del Forno nella Valle del Frodolfo, del Mandron nel gruppo dell'Adamello, del Roseg, del Morteratsch, del Cambrena e del Palii nell'Engadina, della Brewna a Courmayeur, des Bossons, della Mer de Glace e dell'Argentière nella Valle di Chamuny, di Viesch del Rodano e del Grande Aletsch nel Vallese ed altri ancora. Aggiungasi, un gran numero d'osservazioni raccolte dalla bocca degli alpigiani, dai socî del Club alpino, dagli ufficiali della milizia alpina, da bollettini, disegni, fotografie; per cui è messo in sodo che il fenomeno del regresso non si restringe a questo o a quel ghiacciajo, a questa o a quella porzione delle Alpi, ma è generale a tutta la catena quanto essa si distende da ovest a est, così sui versanti italiani come sui versanti svizzeri, così nelle Prealpi lombarde come nelle bernesi.

È impossibile, senza disegni e cifre, dare un'idea della grandiosità del fenomeno. Basti il dire che pei più grandi ghiacciai ho verificato un regresso di 400, di 600, e fin di 1000 metri di lunghezza, misurandola dalla morena abbandonata verso il 1860 fino ai limiti attuali del ghiaccio, ed un abbassamento di 50, di 60 e fin

di 100 metri, misurato dalle erosioni e dall'altezza delle morene che rimasero abbandonate sui fianchi. Non parlo delle vedrette e dei campi di neve, scomparsi a cento a cento, lasciando nuda e sparsa di sfasciume morenico l'area che occupavano dapprima; non parlo del livello delle nevi perpetue sensibilmente rialzato, e della loro scomparsa in molti luoghi, in contraddizione flagrante colla loro qualifica. Infine sono decine e forse centinaja, non di metri, ma di chilometri cubici di nevi e di ghiacci, levati in pochi anni da quei provvidenziali serbatoi tutt'altro che inesauribili, il cui vuoto sarebbe una delle più grandi calamità che possa colpire quella parte d'Italia dove più larghi e più pingui verdeggiano i prati e biondeggiano i campi.

Presento solo come compendio e come prova di tutto due disegni: il primo, preso

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