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E fe'l mal, che mi preme apro e divulgo,
Il mal, che infin lo guarirebbe un foldo
Nulla da lui, fe non configli emulgo.
Ma fortuna per me, ch' io non l'affoldo,
E quando ei paffa, e quegli occhiacci avventa,
Dico tra me deh guarda il manigoldo,
Che lodar può la povertà contenta

Ed egli intanto l'efecranda fame
Di poffeder giammai non vide fpenta.
Sicchè fe il tutto ti riduci a efame,
Non è lo Stoicifmo altro che verba,
E che magre fentenze, ignude, e grame.
Io credca già nella mia etade acerba,
Quando io vedeva quefti fudicioni,
Ch' e' non aveffer cupida, e fuperba
La mente e che teneffer pe' calzoni

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Me' dell' Abbrucia aggavignato, e Atretto 2
Il valor de' Lucilli, e de' Catoni.

O vacci fcalzo; e' non ha tanti un ghetto
Ladri coftumi, e fcellerati vizzi,

Quanti quefti baroni, ch' io t'ho detto
Ahimè, che importa far de' facrifizzi.

Zuppa agli Dei, e in toga andar precinto E un vifo aver, che l' antimonio fchizzi? Se tu t' aggiri in cicco laberinto,

Se il diavolo t' accifma, e fe tu fai 2
Come al di dentro fei macchiato, e tinto
Adunque chi con tela di Cambrai

Vefte le molli, e delicate chiappe
Di buon coftume non farà giammai?
Lafcia, Curculion, codefte frappe,

Che pajon giufto giufto un paretajo,
Perchè più d' un nella tua rete incappe
Perocchè la virtù non sta nel fajo

Nè bifogno ha di funi per tenerfi
Nè men di panno groffolano e bajo.

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Un diavolo è quà dietro, che n' accifma,
Si crudelmente al taglio della fpada.

Se

Se tu vedefi in cenere cofperfi
Venir Sardanapalo, ed Epicuro,
Gli crederefti tu da lor diverfi?

Ma tu mi ftringi quì tra l'ufcio, e 'l muro
E gridi, ch' io difprezzo quegli eroi,
Che incontro al vizio così armati furo.

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,

Eh beftia; ancor tu non intender vuoi
Ch' io biafmo quei, che mostrano alla vefte
Di difprezzar fe fteffi, e fprezzan noi «
Gite, o fanciulli, e là dalle forefte

Portate olivi a fafci, e fate largo i
Alle facciute, e venerande tefte.
Anch' io per terra la mia toga allargo,
Al paffar di çoftor, e fior d'aranci
E gelfumin, come tu vedi, io fpargo.
Eccone una tal coppia; or via mettianci
Ad offervargli, e intanto a improvvifare
Cominci il sì canoro Abate Lanci.
Dimmi per Dio, fe Ilarion non pare
Qualcuna d' efte barbe profumate,

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I

Ch' han prefo i Fiorentini a riformare.
Quanto lungi dal ver t'inganni, o frate;
Se tu poteffi dentro alla muraglia
O pur le porte penetrar ferrate,
Non già de' Sibariti empia canaglia
Tal moftrerebbe a te l' età vetufta
Che a quefti miei paragonar fi vaglia.
Sarebbe forfe ogni lor pena ingiufta ?.

Perchè afcofa è la colpa ? in chiufa ftanza,
San ben di meritar colonna, 2 e frufta
Bell'è il veder un tal barbon, che danza.
Di più ragazzi e di bagafce in cricca,
E che trelcando i Coribanti avanza.
Ora a quefti, ora a quelli il bacio appicca,
E cinguetta d' amore, e fa 'l bordello

1

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Or col fuo fpofo, ed or colla Giannicca. 3

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Gentiluomo Perugino, eccellente, prontiffimo improuvisatore.

2 I condannati alla berlina, che in Firenze fi dice a ftare in gogna, stanno legati alla colonna di Mercato vecchio 3 Nome tolto dalle Satire dell' Ariofto..

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Ma poi, quand' efce fuor, vifo, e mantello
Prende in tutto diverfo, e fa paura,
Come fe fuffe un birro del bargello
E già più d' una donna fi fcongiura,
Perchè coftor l' han fatta fpiritare,"
O almen per quefto ha dato in fconciatura
S'io fuffi un tratto affunto al comandare
Il che di rado tocca a chi ha giudizio.
Io manderei costoro un po' a remare.
Ed alla patria farei un bel fervizio
Col liberarla dall' ipocrifia-

E dallo Stoicifmo, che il fuo vizio
Copre co' veli della fagreftia.

SATIRA VI

Ideva Momo allor, che le zittelle
Vedea paffar col guardo in fe raccolto,
Come tante velate verginelle.

E a gran ragion ridea, che 'l popol ftolto
Credendole ferrate come pine

,

Elle aveano il brachier sferrato e'fciolto.
Ben quefta è una donnefca aftuzia fine

Sembrar lei che portò l'acqua nel cribro,
Ed effer poi qual Meffalina, o Frine
Perciò Momo, di lor fcrittone un libro
Conchiufe in questa nobile fentenza :
Son tutte d' un medefimo calibro.
E conofceva fol dall' apparenza,

Che di più giorni era gallato l'uovo
Senz'altro indizio dell' inappetenza ·
Ma io, che appena al tafto il ver ritrovo
Le crederei quai colombine intatte,
Che fiano ufcite allor allor dal covo

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,

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I

བྱ་ཨ Par

1 Tuzia Vestale V. Valer. Mass. 1. 8. cap. 1. Petr. Trionf.

della caftità:

Portò dal fiume al tempio acqua col cribro.

248

Pur fotto al tonachin fia, che s' appiatte
Ciò, che lor grava, e l'uno, e l'altro lombo,
Ed un fecchione elle empierian di latte.
Oh povere ragazze, io non vi zombo

Per quefto no, che contro alla natura
Matto è ben quei, che fa fchiamazzo, e rombo.
E veggio ancor perchè Buda, e Mufura

Vuol, che la figlia imbavagliata il mento Del fecol faccia una folenne abjura. Perchè ha egli a dar mille, fe con cento Se la toglie di cafa? un bianco velo. Val men

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che di broccato un paramento. is {
Ella d'un rifo, che innamora il cielo
Lampeggia allor, che vefta in fen l'accoglie,
Qual giglio fparfo di notturno gelo.
Crefce intanto l' età, crefcon le voglie,

E a guifa delle Partiche cavalle,

Di quel, che ancor non fa, par, che s' invoglie E vede poi, com'è fpinofo calle

Quel, che al dritto fentiero s' attraverfa, Ond' uom rivolge alla ragion le fpalle. Che se natura è al propagar converfa,

E qual v'è legge in tavole intagliata

Miglior di quella, ch' entro al cuor fi verfa ?
Ma v'è più d' una putta fciaurata

Che sforna il parto, e quello iniqua ancide,.
Nuova Medea, e a crudo efempio nata .

Già tornò addietro il fole

allorchè vide

Del fier Tiefte l'efecrabil cena,

E quì la terra, oime! non fi divide ?
E qual v'è tigre in fu la Maura arena
A quefta eguale e l'Affricana riva
Qual moftro nutre, o cruda anfefibena?
Crede lo Sgobbia effer grand uom, fe arriva
A biafmare una donna, che fi lifcia,
E fa 'l ciglio affilar colla fciliva.

E non fa ancor, che Don Grillon, che ftrifcia
Sull' organo del Duomo il folreutte,
Luccica in vifo, più che al fol la bifcia.

Tra le ribalderie orrende, e brutte
Del feffo femminil, quefta io la ftimo
Un gambo di finocchio in fu le frutte.

E chi leggeffe un po' da fommo a imo,
Intenderia, che l'incoftanza d' Eva
Molto ritien del fuo terreftre limo.
Vedi Fullonia, che la mano aggreva
Per spacciari d' Irquillo, onde l'acquetta,
Od altra polve avvelenata ei beva.
E poi la gente ad offervar ristretta

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Dice coftui certo moriva becco,
Se così a tempo non avea la ftretta.
E quefto è il figurin, quefto lo ftecco
Pofto fotto la foglia, ed altri imbrogli
Ch' io per me non iftimo un ficofecco
Stimo bensì, che tu, Fullonia, togli
Con arti afcofe Irquillo, e in quella vece
A un altro drudo la bracheffa fciogli.
E qui lo Sgobbia poi fpippola, e rece
Quei verfi mifurati colla ringa,

A biafmare il belletto, e chi lo fece.
Quafi non fappia, come Aurelia finga

D' amare il fuo conforte, e pofcia ingolli
O di Mafaccio, o di Burchion l'aringa.
Or tu, che al fuoco del fuo amor ti frolli
E d'Argo affai migliore unqua non vedi
Di rimirarla gli occhi tuoi fatollis
Ornala pur de' più fuperbi arredi,

Ch' abbia donna fua pari, e la carrozza
Le tieni ancor, che non s' imbratti i piedi.
E fe ti fgrida, coraggiofo ingozza,
Come fe foffer pillole del Gelli,

Parole da tornar giù per la ftrozza.
E perch' abbia ful crin gemme, e frenelli,
Impegna il lucco, ficchè tu non poffa
Tra' mazzieri far pompa, e tra' donzelli
E fe comprar vuoi qualche perla groffa,
Qual bevè la regina di Canopo, I
Col gonfalon vendi la toga roffa.
Falle ogni cortefia, acciocchè dopo
Ella adocchi Crifpin, che di pomata
Lardella ognor quei bafettin di topo.

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Oh

Cleopatra regina d'Egitto.

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