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PROLOGO

per una rappresentazione de I Suppositi

di LUDOVICO ARIOSTO 1.

[Parla l'ombra dell' Ariosto].

Non son queste le stelle ond'aureo il Cielo
Risplende a quei che mai non vider morte?
Non è questa la terra ov'ha sí vario
L'imperio il sol, ch'or la rinfiora, or l'arde?
E non è questo il mondo, ov'io mi vissi
Uom già di carne e d'ossa? Or non son io
In fra le pompe di superba scena?

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Deh! qual pietà, qual Nume onnipotente

Sue grazie oggi in me versa, oggi in me spiega

Sue meraviglie? Io, ch'a dormir fui tratto

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Il ferreo sonno de la morte, or gli occhi

Pur riapro a la luce: io, spirto ignudo,
Riedo oggi a respirar l'aure vitali
Pur rivestito il fral del terreo manto,
E a riveder de la mia patria cara
Accolto in bel teatro il popol grato.
Quanto lunga stagion fra l'ombre avvolto
Io mi sia stato i' non saprei ridirvi,

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Che là, ov'io vivo, non si contan gli anni;
Ma dirò quand'io vissi: indi a voi noto

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Fia quanto ha scorso il sol da ch'io mi scinsi

De la gonna mortal, ch'oggi ho ripresa:
Grazie ch'a pochi il Ciel largo destina.

1) Non sappiamo quando la rappresentazione avvenisse; questo prologo del Tasso fu edito la prima volta nel 1587.

1-6. La mossa di questi primi versi ricorda nella canzone del PETRARCA, Italia mia, la st. VI.

23. Capoverso di un sonetto del PETRARCA.

Vissi a Ippolito Estense, e fu mio zelo
D'arder a 'l nume suo face di gloria
Con vivo inchiostro. I'son quel che cantai

« Le donne, i cavalier, l'arme e gli amori »;
Quel ch'ordíi anco i comici bisbigli,
Ond'oggi è a voi promesso onesto riso.
Ch'io mi morissi, e quale, è a voi palese;
Ma che di me si fèsse, e a quale stato
Morendo io rinascessi, uom che qui viva
Non puote aver inteso: or io dirollo,
E dirò come a la presenza vostra
Ritornato mi sia, ed a che venni.
Né ora tem'io già che'l sermon lungo
Sia per noiarvi, perch'io so che mésso
Non vien piú desiato a voi mortali,

Di quel che di là viene, ond'io ne vegno.
Luogo è ne l'altro mondo, ov'uom qui morto
Vive novella vita, e ha nome Eliso:
Cosí lo nominò la prisca etate;

Siede presso a un castel, che Dite è detto,
Torreggiante di fuoco e d'altri mostri:
Ma com'è quel ripien d'aspro e di tristo,
Cosí questo è d'ameno e di soave.
Quivi perpetuo un zefiro inzaffira
Le piagge, e sul smeraldo intesse l'ostro
Di bei fioretti, ch'or di gelo imperla

Ne l'alba, ora a' gran dí scioglie in odore;
Corron di latte i ruscelletti vaghi,

E stilla il mel da gli elci e da gli olivi:
Campo di gioia, se non quanto accende
Infinito desío de 'l Paradiso,

E'n questa afflizion l'anime offende.
Tutti convengon qui d'ogni paese

Quei che vivendo in pregio ebber le Muse
E l'oprar dritto che natura addita;

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26. ARIOSTO, Furioso, I, 3:

Quel ch'io vi debbo, posso di parole

Pagare in parte e d'opera d'inchiostro.

55. La descrizione degli inferi è pagana; ma questi ultimi versi sono reminiscenza del limbo dantesco (Inf., IV, 40-43).

56. Verso di DANTE, Inf., III, 123.

Ma, quei che fûro innanti a 'l cristianesmo
Per non partirne mai (tal libra in lance
La divina Giustizia il merto e 'l danno);
Quei ch'adorar debitamente Dio
Qui l'alme pure purgano ed infette
Da 'l sensuale affetto; ma dapoi
Fian richiamate a la celeste reggia;
E di questi cotai son io medesmo.
Qui pur pensosi, a passi lenti e gravi
Van quei grandi ch'a 'l vero ebber gl'ingegni.
Aristotele il primo, e 'l divin mastro

De la scuola superna, i' dico Plato

Con tutta la sua schiera, e con mill'altre,
Che 'l furor letterato in alto eresse.
Qui cinti d'arme gli spiriti magni,
Onde rimbomban sí Micena e Roma,
Achille, Agamennón, Cesare e Scipio
Van trionfanti, ed han seco, o Ferrara,
Non men di ferro e di valore armati,

De' tuoi Ercoli e Alfonsi. Or io mi stava,

L'alte schiere ammirando in grembo a i fiori,
Quando udíi dirmi da invisibil voce:
Oggi in teatro augusto i salsi motti
Conditi da tua Musa, e le sciocchezze,
Le frodi e i popolari accorgimenti
Debbon udirsi: ivi in regal corona
D'eroi s'asside il glorioso Alfonso,
Pieno di deità gli atti e l'aspetto,

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Qual Giove infra i suoi divi. In nobil coro

Di caste ninfe amorosette e care,

La sua Giunone ha seco; intanto attende

59. Anche questo verso imita il dantesco E se furon dinanzi al Cristianesmo (Inf., IV, 37).

62. Altra imitazione del dantesco Non adorar debitamente Dio (Inf., IV, 38). 66. Verso di DANTE, Inf., IV, 39.

67 sgg. Imitazione di DANTE, Inf., IV, passim.

68. Imitazione del dantesco E gli altri ch'a ben far poser gl'ingegni (Inf., VI, 81).

72. PETRARCA, Tr. d. Fama, ediz. Mestica, III, v. 103: Che 'l furor letterato in guerra mena.

85. Alfonso II, duca di Ferrara.

89. Lucrezia d'Este, sorella del Duca, che il T. chiama Giunone anche altrove. E però non credo alluda ad una delle mogli del duca.

Come scaltro risuoni e come piaccia
Tocca da dotta man comica cetra.
Tu va'; ben degna è sí mirabil scena
Di mirabil messaggio, e primo parla. -

Tacque: ed io ratto in men che non balena,
Qui mi condussi, e non so per qual calle;
Or dirò il comandato e dirò breve.
Le Scienze, figliuole de la mente,
Vivon soggette a le medesme leggi
Che Natura ha prescritte a' figli suoi:
Come nasce, fiorisce, invecchia e muore
L'abete, il pin, la quercia ed il cipresso,
Cosí queste han sua vice. Fu la scena
Infante a' primi tempi, e giovin poi
Fêssi e matrona; or è canuta vecchia.
Ben quai medici accorti, che previsto
Lunge il letargo, han rimedi ch'in fasce
L'uccidan e spess'anco anzi che nasca,
Tai gran saggi, avvertendo il fatal corso
De 'l pöetar di scena, a preservargli,
Se non da morte, almen da presta morte,
Con gran senno, arte dotta in brevi carte
Strinsero in immutabili precetti.

E certo il lor pensier veniva intero,
Ma l'ignoranza s'è tanto ingegnata
Ch'i saggi avvertimenti ha torti e guasti;
Onde piú ratto il buon comico iambo
È invecchiato e caduto in vil dispregio;
Cosí ha gran mal picciol' licenza a lato!

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94. DANTE, Inf., XXII, 24:

E nascondeva in men che non balena.

95. DANTE, Purg., VIII, 40:

Ond'io che non sapeva per qual calle.

113. Imitazione di DANTE, Inf., XXVII, 69: E certo il creder mio veniva intero.

114. PETRARCA, canz. Italia mia, 36-38:

Mal desir cieco e 'ncontra 'l suo ben fermo

S'è poi tanto ingegnato

Ch'al corpo sano ha procurato scabbia.

116. Che il giambo, trovato da Archiloco per esprimere la sua rabbia, fosse poi accolto dalla Commedia, dice ORAZIO, Art. Poet., 79 e sgg. e 251 e sgg.

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