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E son tuoi fatti egregi

Le pene e i pianti nostri.

Ma tu, d'Amore e di Natura donno,
Tu domator de' regi,

Che fai tra questi chiostri

Che la grandezza tua capir non ponno?

Vattene, e turba il sonno

A gl'illustri e potenti:

Noi qui, negletta e bassa

Turba, senza te lassa

Viver ne l'uso de l'antiche genti.

Amiam, ché non ha tregua

Con gli anni umana vita, e si dilegua.

Amiam; ché 'l sol si muore e poi rinasce:

A noi sua breve luce

S'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.

66-68. CATULLO, V:

Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
Rumoresque senum severiorum
Omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:

Nobis, quum semel occidit brevis lux,

Nox est perpetua una dormienda.

E veggasi l'ultimo coro del Torrismondo del medesimo TASSO:

Ahi lagrime! ahi dolore!

Passa la vita e si dilegua e fugge

Come gel che si strugge.

68. II GUARINI compose il coro del quarto atto del Pastor fido con concetti opposti a quelli di questo coro del Tasso, ma conservando le medesime parole in rima; non sarà inutile il confronto:

O bella età dell'oro,

Quand'era cibo il latte

Del pargoletto mondo, e culla il bosco;
E i cari parti loro

Godean le gregge intatte,

Né temea il mondo ancor ferro né tosco!
Pensier torbido e fosco

Allor non facea velo

Al Sol di luce eterna.

Or la ragion che verna

Tra le nubi del senso, ha chiuso il Cielo:

Ond'è che 'l peregrino

Va l'altrui terra, e l' mar turbando il pino.

Quel suon fastoso e vano,

Quell'inutil soggetto

Di lusinghe, di titoli e d'inganno,

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Ch'Onor dal volgo insano
Indegnamente è detto;

Non era ancor degli animi tiranno.
Ma sostener affanno

Per le vere dolcezze;

Tra i boschi e tra le gregge

La fede aver per legge,

Fu di quell'alme, al ben oprar avvezze, Cura d'onor felice,

Cui dettava Onestà: Piaccia se lice.

Allor tra prati e linfe

Gli scherzi e le carole,

Di legittimo amor furon le faci.

Avean pastori e ninfe

Il cor nelle parole:

Dava lor Imeneo le gioie e i baci

Più dolci e piú tenaci.

Un sol godeva ignude
D'Amor le vive rose:

Furtivo amante ascose

Le trovò sempre, ed aspre voglie e crude

O in antro o in selva o in lago;

Ed era un nome sol, marito e vago.

Secol rio che velasti

Co' tuoi sozzi diletti

Il bel dell'alma; ed a nudrir la sete

Dei desiri insegnasti

Co' sembianti ristretti,

Sfrenando poi l'impurità segrete!

Cosí, qual tesa rete

Tra fiori e fronde sparte,

Celi pensier lascivi

Con atti santi e schivi:

Bontà stimi il parer, la vita un'arte;

Né curi (e parti onore)

Che furto sia, purché s'asconda, amore.

Ma tu deh! spirti egregi

Forma ne' petti nostri,

Verace Onor, delle grand'alme donno.
O regnator de' regi,

Deh torna in questi chiostri

Che senza te böati esser non ponno.

Destin dal mortal sonno

Tuoi stimoli potenti

Chi per indegna e bassa

Voglia, seguir te lassa,

E lassa il pregio dell'antiche genti.

Speriam; che 'l mal fa tregua

Talor, se speme in noi non si dilegua.

Speriam: che 'l sol cadente anco rinasce; El ciel quando men luce,

L'aspettato seren spesso n'adduce.

INTERMEDIO I.

Proteo son io, che trasmutar sembianti
E forme soglio variar sí spesso
E trovai l'arte, onde notturna scena
Cangia l'aspetto; e quinci Amore istesso
Trasforma in tante guise i vaghi amanti,

Com'ogni carme ed ogni storia è piena.
Ne la notte serena,

Ne l'amico silenzio e ne l'orrore,
Sacro marin pastore

5.

Vi mostra questo coro e questa pompa;
Né vien chi l'interrompa,

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E turbi i nostri giochi e i nostri canti.

Gl'intermedi erano figurazioni, per lo piú mitologiche, e spesso accompagnate dalla musica allora nascente, indipendenti dall'azione principale.

1. Proteo, figlio dell'Oceano e di Teti, custode degli armenti di Nettuno, è famoso nella mitologia per le sue tramutazioni; cfr. OMERO, IV, 416 sgg.; VIRGILIO, Georg., IV, 387 sgg., e OVIDIO, Metam., XIV, narra appieno la trasformazioni di lui. Perciò appare qui come colui che presiede al mutamento della scena. Dal v. 10 si rileva ch'egli si mostrava accompagnato da un corteggio.

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Steso nel suolo, al capriol trafitto
E le ninfe e i pastor danzan d'intorno.
(Atto I, sc. 2, vv. 170-180).

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA.

SATIRO, Solo 1.

Picciola è l'ape, e fa co 'l picciol morso
Pur gravi e pur moleste le ferite;

1) Per il satiro nelle pastorali cfr. qui addietro (p. 131) l'osservazione del CARDUCCI; nel caso particolare il medesimo CARDUCCI, Op. cit., p. 83 ebbe a notare: < I satiri nell'Egle [del GIRALDI] sono tutto; ma il satiro dell'Aminta discende piú veramente da quello del Sacrificio di Agostino Beccari >.

Il Satiro, come colui che si aggira per le selve, è introdotto a parlar solo, e intorno a ciò osservava il PIGNA, Dei Romanzi ecc. cit., p. 114: < Et quando da sé le persone parlano, è da dire ch'elle pian piano seco stesse ciò facciano: o che quelle cose si vadano immaginando, che dicono a piena voce; et in ciò è stato forza che il parlare vi sia, accioché intese siano. Et simili ragionamenti in coloro specialmente sono ben collocati, i quali da grave commovimento si lasciano trasportare; come i disperati, i troppo lieti, et i posti in travaglio et in dubbio. E gli amanti, piú che gli altri, da sé sogliono ragionare, et è ciò in essi molto verisimile: perciocché non parole, ma gridi mandano fuori sovente da sé stessi >.

I sgg. Concetto imitato dall'Anacreontea:

Ἔρως πότ ἐν ῥόδοισιν

di cui ecco la versione in prosa: Amore un giorno non s'accorse di un'ape la quale riposava tra le rose, e fu punto al dito. Ferito alla mano gittò un grido, e

14 SOLERTI.

Ma qual cosa è più picciola d'Amore,
Se in ogni breve spazio entra, e s'asconde
In ogni breve spazio? or sotto a l'ombra

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correndo e volando verso la bella Citera: ahimé, gridò, mi sento morire; un piccolo serpente alato, che gli agricoltori chiamano ape, mi trafisse. Ed ella gli rispose: se il pungiglione di un'ape ti tormenta, qual dolore tu credi che sentano quanti tu ne saetti?>- Anche TEOCRITO nell'idillio Amor ladro di méle svolse lo stesso argomento; le traduzioni sono infinite: meno note quella di Fabio Benvoglienti in distici volgari (cfr. CARDUCCI, La poesia barbara nei secoli XV e XVI, Bologna, Zanichelli, 1882, p. 290) e pure in volgare quelle di Ludovico Paterno e Luigi Alamanni; Tito Vespasiano Strozzi lo trasportò in latino:

Dum Veneris puer alveolos furatur Himetti
Furanti digitum cuspide fixit apis.
Indoluit graviter, pueriliaque ora rigavit
Fletibus, et matri spicula questus ait:

Unde haec tantillis vires animantibus? Unde?
Exili possunt laedere aculeolo?

Cui Dea subridens inquit: Non tu quoque, nate,
Corpore non magno vulnera magna facis?

Lo parafrasò altresí MARIO ZITO ne' suoi Capricciosi pensieri e poi molti altri, per i quali v. E. MELE, Una poesia del Tasso e un idillio di Teocrito nella Cultura, N. S., an. V, no 4, Roma, 28 gennaio 1895. Il madrigale del Tasso osservato dal Mele come derivazione certa dal concetto ora esaminato, è il seguente (cfr. la mia ediz. delle Rime cit., II, no 255):

Mentre in grembo a la madre Amore un giorno

Dolcemente dormiva,

Una zanzara zufolava intorno

Per quella dolce riva;

Disse allor, desto a quel susurro, Amore:

Da sí picciola forma

Com'esce sí gran voce e tal rumore

Che sveglia ognun che dorma?

Con maniere vezzose,

Lusingandogli il sonno col suo canto,

Venere gli rispose:

E tu picciolo sei,

Ma pur gli uomini in terra col tuo pianto
E 'n ciel desti gli dèi.

5-6. PETRARCA, canz. Se 'l pensier:

Amore, e quei begli occhi
Ove si siede a l'ombra,

DELLA CASA, son. Son queste, Amor:

E questo bel ciglio, in cui s'asconde
Chi le mie voglie, com'ei vuol, comparte.

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