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È di tempre divine, e imprime amore
Dovunque fiede. Io voglio oggi con questo
Far cupa e immedicabile ferita

Nel duro sen de la piú cruda ninfa
Che mai seguisse il coro di Dïana.
Né la piaga di Silvia fia minore

(Ché questo è 'l nome de l'alpestre ninfa)

55.

Da queste due saette derivano evidentemente le due fontane dell'amore e dell'odio che han tanta parte nella poesia cavalleresca (BOIARDO, Orlando Inn., I, III, 31 sgg.; II, xv, 22; ARIOSTO, Furioso, 1, 78 e XLII, 35-37); ma piú notevole è, come osservò il RAINA (Le fonti dell'Orl. fur., Firenze, Sansoni, 19002, pp. 93-95) che l'accoppiamento delle fonti e delle frecce è già nell'antichità. Descrivendo la dimora di Venere nell'Epitalamio di Onorio e Maria, CLAUDIANO dice (vv. 69-71):

Labuntur gemini fontes; hic dulcis, amarus
Alter, et infusis corrumpit mella venenis,

Unde Cupidineas armavit fama sagittas.

53. La piaga d'Amore è tenuta immedicabile per la somma sua asprezza; talchè, come esperto di ciò, confessò PROPERZIO, El., II, 1:

Omnes humanos sanat medicina dolores,

Solus Amor morbi non amat artificem.

Il medesimo concetto fu espresso da OVIDIO, Eroida d'Enone a Paride:
Me miseram, quod Amor non est medicabilis herbis.

E Monsig. DELLA CASA nel son. Doglia che vaga donna:

Nulla in sue carte uom saggio antica o nuova

Medicina have che d'Amor m'affida.

55. Diana o Cintia come protettrice delle vergini aveva l'attributo di Partenia. Cosí nel prologo della Pastorale del GIRALDI edita dal Carducci, Amore si propone un istessò atto (vv. 1 sgg.):

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< Pare cosa ben strana a la mia madre,
Ch'avendo vinto Giove e vinti quanti
Nel ciel son dèi, sola Diana sia
Sí contra di me armata, che mai face
Non senta del mio fuoco, né mai strale
Ch'esca da l'arco mio la passi pure
Oltre la gonna, e che non solamente
Ella sia armata contra me del gelo
Di gelata onestà, ma che le ninfe
Che seguon lei siano ribelli seco
A me et a lei. Ma certo piú dolere

Non si potrà; perché infiammato ho il petto

A la piú cara Ninfa ch'ella avesse . .

57. < Sogliono gli accorti poeti spianar nelle lor narrazioni i nomi delle persone e delle cose di cui fanno menzione, quando però portano seco qualche difficoltà... il nostro poeta spiega qui il nome di Silvia, non perché non fusse

Che fosse quella che pur feci io stesso
Nel molle sen d'Aminta, or son molt'anni,
Quando lei tenerella ei tenerello
Seguiva ne le cacce e ne i diporti.

E perché il colpo mio piú in lei s'interni,
Aspetterò che la pietà mollisca
Quel duro gelo che d'intorno al cuore
Le ha ristretto il rigor de l'onestate
E de 'l virginal fasto; ed in quel punto
Ch'ei fia piú molle, lancerògli il dardo.
E per far sí bell'opra a mio grand'agio,
Io ne vo a mescolarmi in fra la turba
De' pastori festanti e coronati,

Che già qui s'è invïata ove a diporto
Si sta ne' dí solenni, esser fingendo
Uno di loro schiera: e in questo modo,
In questo luogo a punto io farò il colpo,
Ma veder non potrallo occhio mortale.
Queste selve oggi ragionar d'Amore
Udranno in nuova guisa: e ben parrassi
Che la mia deità sia qui presente

In sé medesma, e non ne' suoi ministri.
Spirerò nobil sensi a' rozzi petti,

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manifesto agli spettatori, essendo Silvia molto nota nel luogo dove si finge esser passato il negozio di questa favola, e per l'istessa ragione poco dopo parla d'Aminta senza dir chi egli sia; ma perché aveva parlato di quella ninfa in generale nei vv. 54-55 . [MENAGIO].

80. PLUTARCO nel Dialogo amatorio afferma che amore fa l'uomo di fatuo prudente; di vile, forte; di avaro, liberale. PLAUTO nella Casina descrive (atto II, sc. 3) Stelinone avvezzo a vivere sciattamente e alla buona divenuto pulito ed elegante dopo che si fu innamorato >. [Rossi]. È superfluo ricordare la canz. del GUINIZELLI:

Al cor gentil ripara sempre Amore

Com'a la selva augello in la verdura;
Né fe' Amore avanti gentil core,
Né gentil core avanti Amor natura;

onde DANTE (Vita Nuova, son. X):

e (son. XI):

Amore e 'l cor gentil sono una cosa
Sí come il Saggio in suo dittato pone;

Ne gli occhi porta la mia donna Amore,
Perché si fa gentil ciò ch'ella mira;

Raddolcirò de le lor lingue il suono,

Perché, ovunque i' mi sia, io sono Amore,
Ne' pastori non men che ne gli eroi;

concetto assai frequente ne' lirici antichi. Anche piú tardi, ad es. il POLIZIANO, La Giostra, I, st. 2, dice di Amore:

Gentil fai divenir ciò che tu miri,

Né può star cosa vil dentro 'l tuo seno;

e, come DANTE, Lorenzo de' Medici, degli occhi della sua donna: Fan gentil ogni cosa che li miri.

81. Agatone nel Convito di PLATONE (XIX) ragionando d'Amore: « Quel Dio è cosí gran poeta, che ne può far degli altri. E chiunque s'innamora, benché innanzi forse rozzo, divien poeta anch'esso ». — Il BOCCACCIO fa dire a Fiammetta nel I: < O pietosissime donne, che non insegna Amore a' suoi soggetti? ed a che non gli fa egli abili ad imparare be' costumi e savi ragionamenti? Io semplicissima giovane ed appena potente di scioglier la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta affezione li modi di parlar di lui raccolsi, che in breve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta >. E però OVIDIO se nel De arte amandi (I, vv. 609-10) dà per consiglio agli innamorati di apprendere l'arte oratoria, soggiunge appresso:

Non tua sub nostras veniet facundia leges:
Fac tantum incipias, sponte disertus eris;

e PROPERZIO (El., II, 1) affermava a Mecenate:

Queritis unde mihi toties scribantur amores,
Unde meus veniat mollis in ora liber.

Non haec Calliope, non haec mihi cantat Apollo:
Ingenium nobis ipsa puella facit.

Ma piú compiutamente il BEMBO nelle Stanze, parlando della potenza d'Amore:

Questa fe' dolce ragionar Catullo

Di Lesbia, e di Corinna il Sulmonese;
E dar a Cintia nome, a noi trastullo,
Uno a cui patria fu questo paese;
E per Delia e per Nemesi Tibullo
Cantare, e Gallo che sé stesso offese,
Via con le penne della fama impigre
Portar Licori dal Timavo al Tigre.
Questa fe' Cino poi lodar Selvaggia
D'altra lingua maestro e d'altri versi;
E Dante, acciò che Bice onor ne traggia
Stili trovar di maggior lumi aspersi;
E perché 'l mondo in riverenza l'aggia
Sí com'ebb'ei, di sí leggiadri e tersi
Concenti il maggior Tosco addolcí l'aura
Che sempre s'udirà risonar Laura.

E la disagguaglianza de' soggetti,

Come a me piace, agguaglio: e questa è pure
Suprema gloria e gran miracol mio,
Render simíli a le piú dotte cetre
Le rustiche sampogne; e se mia madre,
Che si sdegna vedermi errar fra' boschi,
Ciò non conosce, è cieca ella e non io,
Cui cieco a torto il cieco vulgo appella.

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84-85.< Publio Siro nelle sentenze: < Amicitia pares aut accipit aut facit > ; e Minuzio Felice: Et cum dicto eius assedimus, ita ut me ex tribus medium lateris ambitione protegerent, nec hoc obsequii fuit aut ordinis aut honoris ; quippe cum amicitia pares semper aut accipiat aut faciat >. [MENAGIO]. Il PETRARCA, son. Tempo era omai, chiama la Morte:

Chi le disaguaglianze nostre adegua.

91. Amore per l'ordinario si finge cieco da' poeti, non già perché sia cieco, ma perché rende ciechi gli altri, come disse PLUTARCO nelle Questioni platoniche. Il PETRARCA (son. Il mal mi preme):

inganna Amore

Che spesso occhio ben san fa veder torto.

L'ARIOSTO nel primo del Furioso:

Quel che l'uom vede Amor gli fa invisibile,
E l'invisibil fa vedere Amore.

e similmente il Tasso nella Gerusalemme, I, 15: < Amor ch'or cieco, or Argo ». Si finge altresí non solamente con occhi, ma con occhi fiammeggianti e lincei, e ciò perché illumina l'intelletto, da Mosco, Amor fuggitivo: < Ha le pupille acute e fiammeggianti ». — MATTIO FRANZESI nelle sue argute e piacevoli Rime burlesche:

E se si trova pure qualche autore

Che tien che l'Amor vede, anzi antivede,
Questi ancora stravede a tutte l'ore ». [MENAGIO].

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D'un faggio all'ombra i stanchi amanti assisi,
Scaccia Ninfa e 'I Pastor l'api importune.

(Atto I, sc. 2, vv. 105-110).

ATTO PRIMO.

Nell'atto IV, sc. 1, v. 30 è detto: Questo è luogo di passo. Nota il FoNTANINI (pp. 15-18) l'accorgimento di porre la scena in tal luogo perchè non era possibile che gli attori in un medesimo tempo ritrovar si potessero in piú bande, né che gli spettatori, i quali immobilmente devono star con la mente applicati al successo di quello che si rappresenta dinanzi loro, corressero qua e là per vederne il fine in vari luoghi, cioè in varie scene >. Questo giudizio naturalmente è ligio al precetto aristotelico dell'unità di tempo e di luogo, e, sempre in conseguenza di questo, il PIGNA fissava cosí la qualità delle scene: < Le scene son di tre sorti: la prima reale, la seconda popolaresca, l'ultima selvaggia. La reale è finta di luoghi nei quali non vadano se non gran personaggi e altri uomini o di corte o di rispetto. Onde se giovanette riguardevoli vi praticano, non è maraviglia: essendo loro stanze quelle istesse, in che costui e colui si riducono. La popolaresca in suo grado non è cosí; giacché vi sono strade e pubbliche e private. Le pubbliche non comportano che una fanciulla d'un cittadino vi si fermi a ragionare e v'abbia commercio. Le private non sono nobili, ma plebeie e disoneste, e ad esse perciò non è lecito il girvi non che il dimorarvi..... La selvaggia le vergini non rifiuta, per essere ella in suo grado come la reale; e cosí perché i boschi, di ch'ella consiste, sono alberghi di ninfe, esse ninfe meritamente in lei entreranno >. (De i romanzi, ecc., cit., p. 110). Questo luogo inoltre si comprende essere tra il Po e Ferrara dall'accenno al fiume (Atto I, sc. 1, v. 87) e all'isoletta di Belvedere (atto II, sc. 2, vv. 35-36); e però ottimamente notò il CARDUCCI: ..... la scena fissa di tutto il dramma è un luogo di passo non lontano dalla strada pubblica tra il Po e Ferrara. Grata sorpresa, credo, ai primi spettatori; il dramma dunque stava per isvolgersi nei contorni del paese e del tempo loro, tuttoché ellenico o arcadico l'argomento e gentilesco o pagano il costume >.

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