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dalle officine del primo Rinascimento, ancor rude, grezzo e mantegnesco nelle sculture della fine del XV secolo.

Sotto il rispetto iconografico, già erasi osservato in una anteriore pubblicazione (') che essendo il Monumento dei Birago in San Francesco Grande dedicato a Giovan Marco Birago ecc., poteva nascere il dubbio che avesse errato il Torre nel qualificare come San Gerolamo, invece di S. Marco, la statua che faceva simmetria al San Giovanni nel Sarcofago Birago. Ciò dietro l'indizio altresì che il precursore del Cristo si accompagna spesso anche coll'apostolo delle lagune, come vedesi sulla porta dell'Abbazia della Misericordia a Venezia, ove la Vergine sta per l'appunto ritta in piedi fra le statue di San Giovanni Battista e San Marco.

Oggidì per altro, dinanzi alla vera ed autentica statua di Agostino Busti che faceva simmetria col San Giovanni nel disperso Mausoleo dei Birago di San Francesco Grande, fa d'uopo riconoscere che la qualificò esattamente il Torre nel 1674 come la statua di San Gerolamo. Bastano all' uopo l'abito discinto di penitente dell' insigne romito del IV secolo, e la pietra che tien fra mani a martirio del proprio petto, nel quale è noto come, nonostante le austerità della vita nel deserto, ardessero tuttora vivi i ricordi tentatori delle vaghe etère della Roma imperiale.

La scelta di questi due santi intorno alla Vergine del Monumento Birago, risponde del resto egregiamente, anche dal lato iconografico, ai concetti direttivi di quell' insigne opera d'arte, la quale sorgeva, come già fu detto, in una Cappella dedicata dai fondatori alla Passione di Cristo.

Come il Busti pertanto aveva prescelto quali motivi appropriati d'ornamentazione i bassorilievi raffiguranti le principali scene delle sofferenze mortali del Redentore, così era logico e naturale che raggruppasse intorno alla statua principale del Monumento, e cioè alla Vergine col divino fanciullo in grembo, i due Santi che maggiormente misero in luce i vantaggi della celeste redenzione, pur

(1) Fascicolo del 15 aprile 1892 della rivista Natura ed Arte.

restando quasi disgiunti dal mondo fra gli orrori del deserto, e cioè il Precursore stesso del Messia, e il santo Anacoreta che, più d'ogni altro, meditò e mise in luce i misteri della passione.

Sta infatti che nell' iconografia Cristiana San Gerolamo viene perciò appunto raffigurato col crocifisso oppure col teschio fra mani intanto a meditare la dolorosa epopea del Redentore, e se il Bambaja ebbe di mira di rappresentarlo più che altro in atto di penitente col ciottolo fra mani, ciò fece unicamente per non scostarsi troppo per ragioni d'euritmia dall' altra statua di San Giovanni nel deserto e penitente egli pure, in atto di additare il figlio di Dio colle tradizionali parole: Ecce, agnus dei.

Osservisi però che il teschio, emblema della passione, già figura nella decorazione del Monumento Birago e cioè nei pilastrini coi due angeli sedenti sui modiglioni a fettuccie, e così pure altri emblemi della passione, quali il mistico monte sormontato dalla croce fra la lancia e la spugna, adornano i candelabretti dei pilastrini centrali intorno al grande bassorilievo di mezzo della Crocifissione.

Quanto all'effigiare San Gerolamo col leone ai piedi, come usò il Correggio e fu spesso imitato, il Busti non vi pensò neppure, attese le già citate considerazioni di concordanza e simmetria coll'altra statua di San Giovanni, scolpita essa pure colla massima scrupolosità iconografica e senza tampoco la conchiglia o il bastone terminante colla croce e dal filatterio ondeggiante, simboli attribuiti in arte al rude ed ispirato predicatore di Galilea.

Meno poi ancora, trattandosi d'opera scultoria coi caratteri di certa semplicità, poteva proporsi il Busti di raffigurare l' eremita di Calcide colla tromba all'orecchio, allusiva alle parole sue: Surgite mortui; venite ad judicium, oppure colla candela allato a significazione delle lunghe veglie da lui durate nella meditazione e nello studio dei sacri testi, al qual ultimo attributo non si ricorse d'ordinario per San Gerolamo che nelle opere di pittura.

Oltrechè semi ignudo ed in abito di penitente, amò l'Agiologia cristiana di effigiare questo illustre dottore della Chiesa coll'abito e col cappello cardinalizio, e il Busti non ignorava questa raffi

gurazione iconografica del sommo dottore morto, carico d'onori, nel 420 dell'età di ben 89 anni, dacchè in tale foggia lo riprodusse, sul declino della sua vita artistica, nel grandioso Sarcofago al cardinale Caracciolo nel Duomo di Milano, del 1548.

Nella supposizione che il santo e dotto eremita fosse innalzato nella Chiesa dal papa San Damaso ad un posto corrispondente alla dignità cardinalizia, istituita solo più tardi nella gerarchia ecclesiastica, in abito cardinalizio vedesi dipinto San Gerolamo in antiche immagini e nelle grotte vaticane, e di tale raffigurazione iconografica molto si valsero in ispecial modo i pittori per contrapporre quasi alle grigie tinte del deserto e alle scarne forme delle membra e del petto del vecchio anacoreta, la gamma festosa del colore incarnato della porpora.

Per le ragioni già esposte di ben studiata euritmia, egregiamente operò Agostino Busti nel prescegliere pel monumento Birago l'effigie di San Gerolamo in abito succinto da penitente, anzichè quella di San Gerolamo in vestito cardinalizio.

Il raffronto intanto delle due statue, diversamente effigiate dal Busti stesso, di San Gerolamo nel Monumento Birago del 1522 e nel Sarcofago Caracciolo del 1548, e cioè con ben 26 anni di differenza, porge buon argomento di studio per la miglior conoscenza della parabola artistica del più valente fra gli scultori lombardi del Rinascimento, che dal Monumento a Lancino Curzio del 1512, a quello di Gastone di Foix incominciato nel 1515 e lasciato inultimato nel 1521, raggiunse l'apogeo suo di somma valentia nel grandioso Sarcofago della famiglia Birago, a San Francesco Grande, del 1522.

La squisitezza e perizia artistica, massimamente nei particolari dell'abbigliamento delle varie statue del Monumento Caracciolo, non valgono però certo a superare il garbo e l'ispirazione delle tre statue maggiori del Mausoleo del Birago, e rimane quel Mausoleo, pomposo ma freddo, a grande distanza dalla ricca fantasia decorativa a festoni ed a volute e dai candelabretti vaghissimi dell'arca funebre e dei pilastrini del monumento Birago.

Vi è forse maggior dignità e non so quale imponenza nella

statua di San Gerolamo cardinale del Mausoleo Caracciolo, ma il San Gerolamo penitente del sarcofago Birago ne commuove maggiormente nella stessa sua ingenua semplicità, e se poche statue del Busti stesso possono superare per la valentia delle molteplici pieghe dell'abito cardinalizio maestrevolmente drappeggiato intorno al corpo, la prima di quelle statue, l'altra le va superiore per la pia espressione del volto e per la finitezza delle parti di nudo e in ispecial modo delle estremità.

Questa statua di San Gerolamo, di Agostino Busti del 1522, ora all' Isola Bella, non andò esente, come altri pezzi dello sgraziato monumento della famiglia Birago, Conti di Mettone e Sizzano, da guasti qua e là e cos' da una scheggiatura nel lembo del mantello che si avvolge intorno alla gamba sinistra, e peggio da una rottura all'estremità del naso, quale riscontriamo dolorosamente nella statua colca, del Busti stesso, raffigurante Gastone di Foix.

Tali guasti riescono facilmente spiegabili colle vicende dei ripetuti trasporti cui andò soggetto il monumento Birago di San Francesco Grande, eretto dapprima il 1522 nella Cappella della Passione, poi trasportato dal 1606 sino al 1667 nel chiostro del Cenobio e ricostrutto poi a quest' ultima data nella Cappella di San Liborio, ove rimase fino alla rovina del 1688. Non parliamo delle successive peripezie allorchè fu collocato nel locale presso la Cappella Borromeo di San Francesco Grande, poco discosto dai resti del sarcofago a Giovanni Borromeo, e di là fu trasportato all'Isola Bella ove l'arca Birago, le due statue di San Giovanni e San Gerolamo e i cinque bassorilievi coi pilastrini, rimasero, insieme al disfatto mausoleo di Giovanni Borromeo e all'altro di Camillo Borromeo proveniente da San Pietro in Gessate, nei locali a terreno del palazzo dell' Isola Bella.

Procedutosi verso il 1840 all'erezione della Cappella gentilizia, fu solo dopo gli avvenimenti del 1848, ed anzi verso il 1850 che si fece luogo all' erezione dei tre Monumenti funebri testè citati in detta Cappella.

La cura non lieve della ricomposizione dei tre sarcofagi fu dal

l'illustrissimo signor conte Vitaliano Borromeo, delegata più specialmente al compianto comm. Brambilla di Pavia, amico dotto e stimato della patrizia famiglia, nè può dirsi sia stata errata affatto, risultando i pezzi marmorei assegnati con criterio ai rispettivi sarcofagi.

Solo, atteso i guasti del tempo, fu d'uopo provvedere al rifacimento di qualche pezzo, e all'adattamento di qualche altro senza che sgraziatamente si tenesse nota delle variazioni che si introducevano benchè di secondaria importanza, ma nel complesso fur opera saggia e decorosamente eseguita la ricomposizione dei tre mausolei e tale da salvare per sempre quelle preziose sculture da ulteriori guasti e dispersioni.

Per quel che concerne il Monumento di sinistra a Camillo Borromeo, levato il 17 ottobre 1797 dalla Chiesa di San Pietro in Gessate, si aveva un chiaro documento di quel che fosse originariamente nel disegno che di quel sarcofago diede il Puccinelli nella sua Cronaca di quel Cenobio, e infatti, confrontandolo con esso, si appalesa giustamente ricostituito anche nell'edicoletta superiore colla Madonna sotto il baldacchino circondata dalle statue oranti del Longhignana, della moglie Bona-Longhignana Borromeo, e della figlia sposata ad un Porro.

Pel sarcofago più cospicuo che sorgeva isolato sotto la terza arcata di destra della distrutta chiesa di San Francesco Grande e ricostituito nella Cappella gentilizia Borromeo nell' abside di sfondo, si avevano, è bensi vero, le attestazioni del Canonico Torre che descrisse quel Monumento, nel già menzionato Ritratto di Milano del 1674, come la tomba di Giovanni Borromeo, ma venne opportunamente ad aggiungersi a quella magniloquente descrizione, che in fondo però non offriva elementi sufficienti per una ricomposizione qualsiasi del sarcofago, il documento, assai più sicuro e graficamente importante di un quadro di grandi dimensioni della prima metà del XVII secolo, esistente all'Isola Bella ('). È ritratto

(') Questo quadro fu molto opportunamente fatto restaurare di recente dall' illustrissimo signor conte Giberto Borromeo, e vedesi nella sala del Bigliardo.

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