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nia, e l'ipotesi è ragionevole. Delle relazioni tra lạ miglior poesia del pesarese e alcuni canti di Giacomo Leopardi, egli fa appena cenno in una nota: forse non ha conosciuto a tempo lo scritto di I. Della Giovanna intorno a questo argomento.

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Nessuno ignora, specialmente dopo la pubblicazione dell'Epistolario di Gino Capponi, che l'edizione fiorentina de' Canti del Leopardi si deve in principal modo a Pietro Colletta. Questi, con l'aiuto di alcuni amici, raccolse una somma, mercè cui l'infelicissimo poeta potè lasciare Recanati, nel 1830, e recarsi a Firenze. Da una lettera dello storico, edita ora per la prima volta dal De Gennaro, sappiamo che il sussidio fu dato in dodici rate. La mala fortuna scriveva il generale a Giacomo il 1° aprile 1831 mi ha colpito mortalmente nelle mie più gradite inclinazioni; perocchè oggi sentirei gioia grandissima nel torre a voi le sollecitudini moleste del vivere materiale e lasciarvi il pensiero libero di cure e sereno. Lo avrei potuto molti anni fa, oggi nol posso; perchè io stesso, amico mio, stento la vita con la mia famiglia, e misuro per ogni spesa (pur quella delle medicine) il poco più o meno. Vi dico ciò, non certamente per attristarvi, ma perchè senza queste mie necessità conoscer Voi e abbandonarvi, mi sembrerebbe peccato. Possa l'Italia pregiar l'opere vostre quanto esse meritano, ed arricchirvi. Il quale mio voto suppone l'altro ch'io fo caldissimo, di vedervi ristabilito in salute ed occupato a pubblicare i lavori che avete nello scrigno, gli altri che avete in mente,.

Bella lettera! Ma il De Gennaro scopre che le ultime frasi di essa sono ironiche, che l'augurio del Colletta era bugiardo, ben sapendo egli ridotto il

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Leopardi in condizioni da non permettergli di attendere a nuovi lavori,, e, ricomponendo tutta la storia delle relazioni de' due scrittori, ci rappresenta l'uno vanitoso, falso, meschino, egoista: l'altro a dir poco, ingrato. Vanitoso il Colletta, perchè sperava i Canti dedicati a lui solo, non a tutti gli amici toscani; falso, perchè li giudicò diversamente in diversi tempi; meschino, perchè provò dispiacere, s'irritò della dedica collettiva; egoista, perchè, forse, procurando al poeta il benefizio della sovvenzione, ebbe il secondo fine di obbligarlo a prestargli aiuto nella correzione della Storia del reame di Napoli; ingrato il Leopardi, perchè non dette " l'aiuto che aveva promesso „, non dedicò il suo volume" al suo primo benefattore dimenticò troppo presto chi l'aveva tratto da quell'abisso di disperazione, nel quale era ricaduto stando nel natio borgo selvaggio „.

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Sarà vero tutto questo? Parrebbe di sì; ma i fatti e i documenti consentono spiegazione meno severa. Non devo tacere che l'opuscolo del De Gennaro, in fondo, è, la dimostrazione di una tesi, accuratamente celata; non tanto, però, da non trasparire.... Traspare sinanche nell'annunzio gradito, che ci fa, egli, nipote dell'autore dei Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, della prossima pubblicazione di uno scritto, nel quale" illustrerà con molti documenti le relazioni tra il Leopardi e il Ranieri, dal 27 al 37 „. La tesi è: Giacomo Leopardi non ebbe il cuore pari alla mente! Se sarà provata, la critica storica potrà vantarsi di aver dissipato un'opinione falsa; tutti i cuori gentili si dorranno di una cara illusione svanita per sempre.

V.

Il Canzoniere Palatino 418 della Biblioteca Nazionale di Firenze, pubblicato a cura di ADOLFO BARTOLI e TOMMASO CASINI; Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua; Le Antiche rime Volgari secondo la lezione del codice vaticano 3973, pubblicate per cura di A. D'ANCONA e D. COMPARETTI, vol. V, con aggiunta di annotazioni critiche del prof. T. CASINI; Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua; -Novelle inedite di GIOVANNI SERCAMBI, tratte dal codice Trivulziano cxcm per cura di RODOLFO RENIER; Torino, E. Loescher.

Sette anni dopo che era cominciata, i professori Adolfo Bartoli e Tommaso Casini hanno testè condotta a termine la stampa del Canzoniere Palatino 418 della Bilioteca nazionale di Firenze, cioè di uno fra i più antichi canzonieri italiani," appartenente senza alcun dubbio agli ultimi anni del secolo XIII „. Contemporaneamente i professori D'Ancona e Comparetti han dato fuori l'ultimo volume delle antiche Rime Volgari secondo il codice vaticano 3973, ossia della più ricca, per numero di componimenti e di autori, fra le raccolte di rime antiche,. Essendo pubblicati da parecchi anni il prezioso Canzoniere chigiano, il vaticano 3214 e, per buona parte, il laurenziano-rediano 9, si può dire, oramai, che quasi tutta la più antica lirica nostra sta innanzi ai critici e ai dilettanti. Diligentemente l'hanno già stu

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diata i primi; spesso ne han parlato e ne parlano i secondi: pure, non poche attribuzioni inesatte son da rettificare, molte notizie biografiche e storiche da raccogliere, parecchie classificazioni da rifare. Lungo paziente lavoro di correzione e di interpretazione aspettano i testi di quegli antichissimi componimenti, pervenuti a noi quasi tutti guasti. La lingua, la metrica, le maniere de' vari gruppi di rimatori e, poi, la maniera di ciascun rimatore, le attinenze di ciascun gruppo con gli altri, le influenze vicendevoli, il diverso grado d'originalità quando originalità c'è, le diverse forme d'imitazione, tutto ciò e dell'altro ancora si dovrà ristudiare da capo. Ristudiare, perchè anche i più acuti critici non oserebbero affermare di non avere, pur con le più felici divinazioni loro, pur con le loro più efficaci dimostrazioni, offerto spiegagazioni provvisorie di fatti, che non erano in grado di conoscere con tutta esattezza.

Moltissimo s'è scritto, per citar un esempio, di fra Guittone; gira e rigira, sono state sempre le stesse frasi fatte, si sono ripetuti cento volte gli stessi giudizi. Freddo, arido, stentato, destituito di ogni senso poetico, inetto ad abbellire del fiore di una imagine i deserti dei suoi faticosi sermoni, che altro gli si poteva rinfacciare? Ma, ridotta a' suoi minimi termini, direbbe un matematico, l'opinione, che i più hanno del frate gaudente aretino, è tuttora reminiscenza di alcune sdegnose allusioni di Dante e d'un verso del Petrarca. Finora non si è cercato d'intenderlo procurando la miglior lezione delle sue canzoni, delle sue ballate, de' suoi sonetti; nondimeno gli si è rimproverata e gli si rimprovera su tutti i toni l'oscurità, della quale spesso si deve dar colpa meno a lui che ai copisti. Non è stato studiato con la diligenza,

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