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ressant pour l'histoire des idées. È interessante, certamente, quella lunga infilzata di antitesi: — Amore è pace odiosa, è odio amoroso, lealtà sleale, slealtà leale, paura sicura, speranza disperata, ragione insana, insania ragionevole, dolce naufragio, grave peso leggero a maneggiarsi, Cariddi pericolosa... e via e via per altri cinquanta versi, all'incirca, sino alla sentenza finale: Se tu le sius, il te sivra, Se tu le fuis, il te fuira. I petrarchisti più sfrenati non sognarono mai niente di simile. Interessante definizione; ma, per la storia delle idee, e per evitare anacronismi, sarà bene avvertire che era vecchia di quasi un secolo quando Giovanni di Meung se l'appropriò, mettendola di latino in francese: da quasi un secolo prima ognuno avrebbe potuto leggere quelle antitesi: Pax odio, fraudique fides, spes iuncta timori, Est Amor, et mixtus cum ratione furor; Naufragium dulce, pondus leve, grata Charybdis, e via e via, per un'altra trentina di distici, fino all'ammonimento finale; Persequitur si tu sequeris, fugiendo fugatur; Si cedis cedit; si fugis, illa (Venus) fugit.

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L'autore del Fiore non perdè il tempo a tradurre la descrizione della Fortuna e della dimora di essa, un buon migliaio di versi: il Gorra, che del suo tempo non pare molto curante, li riassume seguendo l'originale, qualche volta, assai da vicino. “ La Fortuna non è dea, nè abita in paradiso, ma sopra una roccia sorgente in mezzo al mare, sbattuta dalle acque, ora sommersa dall'onde, ora rivestita di erbe e di fiori Giovanni di Meung non aveva dovuto affaticarsi gran fatto a imaginare quella roccia e quel mare; prima di lui, il solito Alano aveva cominciato a descrivere la dimora della Fortuna così: Est rupes maris in medio, quam verberat aequor, Assidue, cum qua cor

rixans litigat unda; Quae variis agitata modis, percussaque motu Continuo, nunc tota latens sepelitur in undis, Nunc exuta mari, superas respirat in auras. Colà, secondo Giovanni, e secondo Alano, son due fiumi, de' quali uno scorre dolcemente e ha le acque saporitissime, l'altro" mena acque sulfuree, nere e disgustose Le acque del secondo vanno a confondersi nel loro corso con quelle dell'altro, mutandone tosto la natura e rendendole amare e torbide,, cioè: Nubilus obtenebrat clarum, fermentat amarus Praedulcem, tepidum calidus, fetosus odorum. Su la cima del monte" sorge la casa della Fortuna, sopra la quale sfogano i venti la loro rabbia, e si rovesciano le tempeste. Una parte della casa sale, l'altra discende; quella splende perchè i muri vi sono d'oro e d'argento ed il tetto coperto di pietre preziose; questa è oscura perchè costrutta di fango „. Passiamo dal libro settimo all'ottavo dell'Anticlaudiano; apriamo l'ottavo al primo capitolo: Rupis in abrupto suspensa, minansque ruinam, Fortunae domus in praeceps descendit, at omnem Ventorum patitur rabiem, coelique procellas Sustinet. È necessario proseguir oltre? Aggiungerò soltanto che anche la Fortuna è descritta nel Roman come nel poema latino. Probabilmente, chi ne avesse tempo e voglia, altre somiglianze tra le due opere potrebbe scoprire.

Non piccola parte delle ciniche dottrine di Falsembiante discende da un ricchissimo ramo della letteratura latina del Medio Evo, quello delle invettive e delle satire contro il clero: il confronto non è stato ancor fatto in modo da condurre a risultati precisi, sicuri. Le facezie e i sarcasmi di Giovanni di Meung contro le donne erano stati preceduti da innumerevoli libelli e diatribe, a cominciare da' proverbi di Salo

mone e da' Caratteri di Teofrasto, o, per dir meglio, da un'operetta di San Girolamo, che li fece conoscere in occidente. Per la battaglia, che le sue personificazioni combattono innanzi alla torre, in cui è custodita Bell' Accoglienza, Giovanni non ebbe, forse, a consultare la Psicomachia di Prudenzio; sapeva che una battaglia tra Vizi e Virtù era stata descritta da Alano (1).

Il Castets mise fuori; ma con molta timidezza, l'ipotesi che Dante si fosse "inspiré souvent du poëme français „. Il D'Ancona la confutò brevemente: ora il Gorra la riferisce; ma trascura di farci sapere che cosa egli ne pensi. Non sarebbe difficile dimostrare che Dante non aveva bisogno di farsi prestare da Giovanni l'idea madre di un gran poema allegorico; le censure degli ordini religiosi degenerati erano state, l'ho già accennato, frequentissimo tema di satire, prima del Romanzo e della Divina Commedia. Ma l'argomento, che taglia, come dicono, la testa al toro, è che somiglianze di particolari non vi sono ne' due poemi. Chi può credere Rachele, la quale mai non si smaga dal suo miraglio e siede tutto giorno, vaga di vedere i suoi begli occhi, modellata su la figura di dama Oziosa, la quale non pensava se non a pettinarsi innanzi allo specchio, e, quando s'era pettinata e adornata, aveva faite sa jornée? Questa è la sola analogia, chiamiamola così, molto indeterminata e casuale, di cui mi ricordi.

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La Vecchia custode e consigliera di Bell' Accoglienza, è, secondo il Gorra," imitazione patente „

di

(1) Le origini del Romanzo della Rosa sono state, ch'è poco, studiate, dal sig. E. LANGLOIS (Origines et sources du R. d. la Rose, Paris, Thorin, 1892), il quale di questa recensione, naturalmente, non ha avuto notizia.

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Ovidio: ignoro come egli possa conciliare quest'affermazione, che ha l'aria d'un assioma, con ciò, che scrive poche righe più sotto, dopo avere ricordato che già la letteratura orientale possedeva questo tipo: "Anche Ovidio poteva esser preso a modello, e certo esercitò una notevole influenza l'elegia ottava del libro primo de' suoi Amores. Il Paris non ha dubbi: per lui il tipo della vecchia viene en droit ligne dall'elegia del sulmonese; ma era stato reso popolare dal poemetto di Panfilo e Galatea e da più d'un fableau. Il Gorra dimentica d'indicare dove, da chi, quando il tipo fu" riprodotto,, nè potrei fare io quel, che a lui non è piaciuto; ma giacchè siamo a parlare di poesia del Medio Evo latina, mi sia permesso ricordare che nella graziosissima Alda, della fine del secolo XII, (') si può far la conoscenza di una nutrice, strettissima parente della vecchia del Panfilo.

Quest'ultimo poemetto ebbe grande diffusione e fu meritamente ammirato: il Töbler, che ha pubblicato un'antica traduzione di esso in dialetto veneto, lo giudica a ragione uno de' più belli e più originali del suo tempo. Piacque al francese Adolfo Baudin far risalire la composizione agli ultimi anni del secolo X; critici meno forniti d'immaginazione, ma più dotti e più seri, lo assegnano al XII. È certo, a ogni modo, che nella seconda metà del secolo XII e nella prima del seguente fu infinite volte citato, imitato e, secondo il costume di allora, derubato a man salva. Sembra, e parrà incredibile, fosse adottato come libro di testo nelle scuole, o, se non proprio adottato, raccomandato ai discenti. Eberardo, il quale, ne'

(1) L'ha ristampata testè C. LOHMEYER (GUILELMI BLESENSIS Aldae comoedia; Lipsiae, in aed. Teubneri, MDCCCLXCII).

primi decenni del Duecento, inserì nel suo Laborintus un curioso catalogo di opere, che desiderava lette e rilette da' giovanetti, subito dopo il cauto Catone regola de' costumi, l'egloga di Teodolo, le favole di Aviano e di Esopo, le elegie di Massimiano (quelle, che più tardi furono attribuite a Cornelio Gallo, e studi più moderni han restituite a Massimiano); prima ancora di Stazio, di Ovidio, di Giovenale, di Persio, di Virgilio, fece menzione del Panfilo:

Vulnus Amoris habet in pectore Pamphilus: illud
Pandit in antidotum subvenientis anus.

Il Prot, primo editore di esso, lo giudicò una commedia, perchè i monologhi e i dialoghi de' quattro personaggi Panfilo, Venere, la Vecchia e Galatea

si succedono senza che l'autore dica niente per conto suo, tranne una volta. Il Prot non nascose che il primo verso del discorso di Venere comincia così: At Venus haec inquit o, secondo il testo di cui si servì il traduttore veneto, Tunc Venus hoc inquit; il Baudin, senza rifletterci più che tanto, o desiderando di dar a credere che non ci avesse riflettuto, sostituì una diecina di puntini a questa frase, intitolò commedia il poemetto, e lo divise in atti e in scene. Commedia ripete ora il Gorra; ma forse non avrebbe seguito l'opinione del Baudin se avesse conosciuto la pubblicazione del Töbler, giacchè il dotto filologo tedesco non l'accetta. (') Inoltre, egli opina che "l'autore

(1) Trovo ora dal LOHMEYER e da R. JAHNKE (Com. Horat. tres; Lipsiae, in aed. Teubneri, MDCCCLXCI) usata la locuzione commedie elegiache a proposito di poemetti simili al Panfilo e del Panfilo. Commedie, a ogni modo, non sono; bensì narrazioni interrotte qua e là da dialoghi. Non son riescito a procurarmi uno scritto di E. MUELLENBACH (Comoed, eleg.) citato dagli editori dell'Alda e delle Com. Horat.

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