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poichè se lo stato, in cui trovandosi l'uomo s' ha per felice, contiene in se e piacere, e prestanza d' animo; non potrà quindi conchiudersi, che la felicità consista nel piacere; senza conchiudere similmente, che consista ancora nella prestanza dell'animo.

Nè veggo, che possa rispondersi qui con altro, se non con dire: io non voglio dare questo nome di felicità se non al piacere; così fecero molti grand' uomini, tra' quali il Signor Cardinale di Polignac là dove disse: summamque bonorum, cioè la felicità, esse vo luptatem, modo scilicet inde petatur unde petenda venit. Ed io risponderò: bene sta; e certo a cotesto modo non potrà la felicità non essere affatto lo stesso che il piacere ; ma noi cadremo in una question di nome, ed io seguirò a sostenere, che se per felicità s' intende quel fine, a cui l' uomo deve dirigere tutte le azioni sue, ella dovrà consistere e nel piacere, e in quella prestanza dell'animo, che nasce dalla virtù. Nè so, se le parole del Signor Cardinale di Polignac debbano intendersi altrimenti; imperocchè, se felicità, e piacere fossero secondo Lui precisamente una sola cosa, vana sarebbe la condizione: modo scilicet &c. . Apposta la quale, e non avendo per felicità il piacere, se non quando venga con virtù; ben mostra, che la felicità si constituisca e dell' uno, e dell' altra. Così o il Signor Cardinale è nell' opinion mia, o vi ricade con facilità, ma ciò poco leva..

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Veniamo oramai a ciò che V. S. Illustrissima molto sottilmente propone dopo aver considerata al

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quanto quella comune distinzione della felicità formale, e dell' obbiettiva? lo pure mi fermerò prima alcun poco a considerare una tal distinzione e le dirò come essa mi paja, e poco chiara, e nella presente controversia poco importante. La presente controversia riducendola a ciò, che importa, non in altro consis te, che in vedere, se ciò a che debbono dirigersi tutte le azioni, sia il piacer solo, o no. E se è, egli è chiaro, che l'uomo nelle azioni sue non ha altra regola, che quella di cercare i mezzi, onde nasca maggior piacere. Ora ciò posto, che monta il sapere, se questo piacere, e questi mezzi si chiamino felicità obbiettiva, o felicità formale?

Io per non mostrarmi troppo sdegnato con un' antica distinzione, ho detto alcuna volta, ammettendola, che felicità obbiettiva potrebbe chiamarsi quell' ultimo obbietto, che l'uomo vuole; e felicità formale quello stato, in cui viene a porsi, ottenendo l'obbietto, ch' egli vuole. Ma perchè non potrà alcuno credere, che questo stato istesso sia l'obbietto ultimo, che l' uom vuole? E in questa opinione come distinguerebbesi la felicità formale dall' obbiettiva? Ma che che sia di tutta questa distinzione, che io mostrerei di stimar molto importante, se più lungamente mi vi fermassi, verrò alla sottile proposta di V. S. Illustrissima.

Ella dice, se mal non m' appongo, che l'uomo si rende veramente più nobile, e più prestante per la virtù; ma, che egli però non dee dirsi felice per una tale prestanza, salvo se egli non la conosca, e non la senta Tom. V.

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in se stesso; onde pare, che non nella prestanza stessa debba consistere la felicità, ma sì nella conoscen⚫ za, che l'uomo ne ha; che è quanto dir nel piacere; conciosiacchè il piacere altro non sia, che la conoscenza, che l' uomo ha d'alcuna sua perfezione, come insegnano molti Filosofi, tra' quali il Cartesio, che vale per molti altri.

Or io seguendo l'ordine impostomi da V. S. Illustrissima le dirò anche qui il mio debil parere, ed è che io temo, che Ella sia venuta nel sentimento ora esposto non per altro, se non perchè è pur tornata a prendere il termine di felicità nelle significazion di piacere. In fatti avendo detto, che l'uomo non dee dirsi felice per la prestanza sua, concede poi, che dee dirsi felice per la conoscenza, che egli ne ha. E ciò perchè? Non per altro se non perchè una tale conoscenza è piacere. Onde par bene, che Ella abbia in mente, che il termine felicità altro non significhi, che piacere. E se così è, io non contenderò sopra la significazione di un termine; e prendendolo in quel senso, che Ella vuole, concederò, che la felicità non consiste per modo alcuno nella prestanza del virtuoso. Dirò anche di più, che non consiste nè pure nella conoscenza, che ha il virtuoso della prestanza sua; perchè sebbene credo, che nasca piacere da una tal conoscenza, non direi però, che una tal conoscenza fosse appunto lo stesso, che il piacere; parendomi, che l'idea dell' uno, e l'idea dell' altra non sieno già una medesima idea. Nè mi farebbe cangiar d'opinione l'

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autorità di Cartesio istesso, la quale per quanto sia grandissima, non è però altro, che autorità.

Io concedo adunque, che la felicità nullamente consista nella prestanza dell' animo, se per questa voce felicità non altro voglia intendersi, che il piacere ; ma resta però, che se per tal voce voglia intendersi ciò, che intendo io, cicè quello stato, che l' uomo S deve volere sopra ogni cosa, resta, dico, che ella insieme consista nel piacere, ed insieme nella prestanza dell'animo. Però porto opinione, che la felicità sia uno stato, il quale contener debba due condizioni; l' una si è di ricolmar l'animo di un sommo piacere; l' X altra si è, che sia egli stesso da doversi volere ; e xquindi voglio, che egli si componga di piacere, e di E virtù; perciocchè nè il piacere, quantunque grandissi

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mo, è da volersi, ove si opponga alla virtù; nè dee volersi, che la virtù resti priva del piacere. Ed io credo, che di quì sia nata tutta la varietà delle senten. ze; perchè alcuni, come gli Epicurei, non hanno considerata se non la prima condizione, ed hanno riferito ogni cosa al piacere, facendo torto alla virtù: altri hanno considerata solo la seconda, come gli Stoici ; ed hanno riferito ogni cosa alla virtù non senza fare qualche torto al piacere. Meglio di tutti filosofarono a mio giudizio i Peripatetici, che avendo in vista amendue le condizioni riferirono ogni cosa al piacere insieme, ed alla virtù, benchè questa di gran lunga a quello anteponessero. Che se però volesse alcuno mettere in chiaro tanta contesa, io lo consiglierei volontieri, N 2

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o a tralasciar del tutto il termine di felicità (e dolgasene il popolo quanto vuole ) o a determinarpe prima la significazione, traendolo fuor d'ogni equivoco; poichè sarà sempre difficile lo svolgere una questione cost profonda, finchè ci andaremo rivolgendo trà le ambiguità di un tal nome.

Io ho esposto a V. S. Illustrissima i miei pensamenti, quali che essi sieno, intorno alle sue dotte proposte; vorrei poterle anche esporre l' indifferenza somma, con cui gli sottometto al giudizio suo; ed insieme l'altissima stima, che già da gran tempo ho formata del suo raro, e singolar valore in Filosofia: ma a mostrar ciò non basterebbero molte lettere. La prego a far sì, che io possa almeno mostrarle l'umilissima servitù mia, il che farà col comandarmi libera

mente

Io me le offro tutto; e pieno di venerazione le dico

Di V. S. Illma

Bologna li 24. Luglio 1756.

P. S. Sento, che nel secondo Tomo della Raccol ta, che si stampa in Venezia dal Valvasense, è una molto bella dissertazione di V. S. Illustrissima sopra le mie contese col Chiarissimo P. Ansaldi. Ciò mi fa desiderare grandemente quel Tomo, per vedere un nuovo parto del singolare ingegno suo. Sebbene non dovrò per questo aspettar tanto, se Ella si degnerà di rispondere a questa mia, come la prego, ove possa farlo senza suo incomodo.

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