Billeder på siden
PDF
ePub

trimonio è per gli antichi, ben più che per noi, che ci sposiamo anche o soltanto dinanzi al sindaco, sacramento, la famiglia, ben più che per noi, che non sentiamo più messa nè diciamo più il rosario in comune, società sacrale, tenuta insieme dal culto domestico. Orazio dice. chiaramente che il rilassarsi della disciplina domestica, l'amore sfrenato del piacere, il quale impedisce al matrimonio di conseguire il suo fine, è cagione per lo più anche della sconfitta militare: fecunda culpae saecula nuptias primum inquinavere et genus et domos: hoc fonte derivata clades in patriam populumque fluxit. Quacchero Orazio non era, ma anche a un uomo di amori fa disgusto la fanciulla di buona famiglia che, appena pubere, impara danze lascive (1) e le mette in serbo sinchè il matrimonio le ridarà la libertà; che più tardi, non dico coglie un momento in cui il marito sia distratto o addormentato per concedere abbracci furtivi a un giovane della sua condizione e di sua scelta, ma con il consenso del consorte bene informato, che siede al suo fianco, si leva da tavola al cenno di un capitano di marina mercantile o di un venditore ambulante arricchito.

La strofa seguente mette di nuovo sott'occhio quel legame tra buon ordine e potenza di guerra che gli interpreti non vogliono concedere a Orazio di esprimere, e serve insieme a passare dal quadro della famiglia moderna cittadina a quello dell'antica famiglia rustica, dove si viveva austeramente di lavoro, mentre il padre combatteva e vinceva per Roma. Le parole della quartultima strofa richiamano ancora alla memoria l'età delle guerre

(1) Sul conto che i Romani facevano della danza, si veda sopra p. 46 sgg. I motus ionici sono evidentemente i xaxóτexva oxýμata della danzatrice asiana cantata da Automedonte in un epigramma citato dagli interpreti (AP V 129): come la Romana incestos amores de tenero meditatur ungui, cosi quella ballerina ἐξ ἁπαλῶν κίνυται ἐνύχων.

[ocr errors]

puniche, cantata nel carme precedente, l'età nella quale Roma assoggettò il mondo: non his iuventus orta parentibus infecit aequor sanguine Punico Pyrrhumque et ingentem cecidit Antiochum Hannibalemque dirum (1), ma maschia prole di contadini che aveva imparato per tempo a rovesciare con la vanga le zolle su per gli aspri pendii di Sabina, e, stanca del lavoro giornaliero, mentre la notte, calando, portava riposo ai buoi, faticava ancora a portar legna alla madre severa.

Il carme finisce in un grido di angoscia: « Ogni generazione è peggiore della precedente. I nostri figli varranno meno di noi. Roma è sull'orlo dell'abisso ». L'ultima strofa, checchè se ne dica, non contraddice alla prima secondo la concezione comune degli antichi le colpe si cumulano, perchè ogni generazione eredita non espiati i delitti delle precedenti. Forse proprio in quegli anni Augusto ripubblicava in un suo editto (2) l'orazione con la quale duecent'anni prima il censore del 131, Metello Numidico, cercava di convincere tutti i cittadini romani a prender moglie: gli argomenti un po' cappuccineschi avranno prodotto qualche effetto almeno sul popolino. Che già dieci anni prima della lex Iulia de maritandis ordinibus, che è del 18, Augusto facesse approvare o anche promulgasse di autorità propria leggi sui costumi, non pare a me pienamente dimostrato (3); ma

(1) II JURENKA (p. 306) con la solita squisitezza di gusto vede in ingentem Antiochum una caricatura dell'attributo Magnus di questo re; e sostiene che Annibale sia qui detto dirus perchè aveva un occhio solo, confortando la sua opinione con un passo di Giovenale, che lo chiama ducem luscum!

(2) Come riferisce Svetonio, Aug. 89; ce ne conserva due tratti Gellio (I 6).

(3) Come ha tentato PAOLO JÖRS, Ehegesetze des Augustus (Marburger Festschrift für Theodor Mommsen, 1 sgg.). I suoi argomenti

è naturale che il sovrano, prima di intromettere il diritto in materia così delicata, tentasse di persuadere con le buone il pubblico a compiere il suo dovere il fallimento della propaganda in favore di una mutazione nel tenor di vita, che ciascuno doveva riconoscere necessaria, avrebbe nel caso peggiore legittimato provvedimenti odiosi, perchè lesivi della libertà personale. Con ciò non ci si sogna neppure di dire che Orazio sia qui il portavoce del principe egli, come molti tra i migliori Romani, vedeva chiaro il rischio a cui si andava incontro. Il grido angoscioso è un ammonimento: se fosse profezia di un fato ineluttabile, chiuderebbe troppo male il ciclo delle odi nazionali.

paiono a me in buona parte incerti: p. es. motus doceri gaudet Ionicos non allude certo allo stuprum, qual è definito nella legge Giulia, ma a una precoce educazione al futuro adulterio. Anche il tempo dell'ode III 24, nella quale si esorta chiaramente il sovrano a promulgare senza scrupoli di libertà leggi sui costumi, è tutt'altro che sicuro.

CAPITOLO QUARTO

Odi giovanili e canti della maturità.

I.

Le odi più antiche.

I carmi raccolti nei primi tre libri sono stati composti, come si è visto di sopra (p. 32), in breve giro di anni, all'incirca dal 30 sino al 23. Divari di tempo tra l'uno e l'altro, ogniqualvolta mancano allusioni a fatti storici databili, si riconoscono non tanto dallo stile o dal sentimento lirico, quanto dall'ossequenza più o meno docile ai severi canoni ritmici che il poeta si è imposto. Alcune odi si distinguono fra tutte le altre per il metro, non soltanto diversamente trattato, ma essenzialmente diverso, per lo stile, per l'arte, per il senso della vita. Io non intendo parlare delle quattro o cinque odi nelle quali Orazio prende lo spunto da Anacreonte, quantunque di queste almeno una, I 23, si manifesti antica anche in certa libertà ritmica, l'iato tra il ferecrateo e il gliconeo, alla quale il poeta ha in seguito rinunziato; chè queste liriche, a qualunque tempo esse appartengano, non rompono l'unità del canzoniere, poichè Orazio è perfettamente riuscito a tradurre in stile e ritmi lesbii la materia fornitagli da Anacreonte (1). Nè voglio dire l'ode

(1) V. sopra p. 134.

epica, I 15, nei cui asclepiadei è pure ammessa una volta quella forma trocaica della base, che Orazio altrove ha evitata costantemente: anche qui è indizio di antichità il trattamento del metro, non la scelta di esso, e tanto meno lo stile. E neppure alludo a I 26, l'alcaica di ritmo ancora un po' duro, nella quale Orazio dichiara di iniziare una lirica nuova : l'ode non dice gran che, anzi il contenuto tenue stride con la solennità dello stile; Lamia si sarà contentato e compiaciuto che il suo nome figurasse con tanto onore in un metro sino allora nuovo alla lingua latina.

Tutti questi carmi non si staccano tanto dalle altre, nè tanto si somigliano tra loro quanto tre del primo libro, I 4, Solvitur acris hiems; I 7, Laudabunt alii; I 28, Te maris et terrae. Esse hanno comune con molte altre la composizione distica, non tetrastica se non in quanto il numero dei versi di ciascuna è multiplo di quattro; di particolare i metri non lesbi ma archilochei, come quelli dei giambi. In I 7 e in I 28 il primo verso è un esametro dattilico. L'esametro compare in tutta la prima raccolta delle Odi solo in questi due componimenti, mentre è frequente quale primo verso di epodi archilochei, e forma il verso lungo in tutti gli epodi oraziani, tranne i primi dieci, composti invariabilmente di trimetro e dimetro giambico, e l'ultimo che non è un epodo. Anzi, proprio la medesima combinazione era già stata adoprata tale e quale da Orazio nel dodicesimo epodo, in una poesia che non ubbidisce alla legge meinekiana della strofa di quattro versi. Benchè il secondo verso si solesse chiamare alemanio, secondo Efestione (p. 21, 14) ne aveva dato il primo esempio Archiloco èv έnydoïs; è probabile che il verso lungo dell'epodo archilocheo fosse dello stesso genere del più breve, dattilico, cioè un esametro. In I 4 il distico è composto di un asinarteto formato a sua volta

« ForrigeFortsæt »