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sollevato da terra in cielo: proprio con Ercole e Dioniso Lucrezio aveva paragonato Epicuro (V 14 sgg., 21 sgg.). Orazio si è ispirato nei suoi ẞaotλxà μéλŋ alle forme di carmi alessandrini, come abbiamo veduto di sopra (p. 184 sgg., 199 sgg.), ma vi ha infuso lo spirito

nuovo.

1.

L'inno alla Fortuna (I 35) e il fulmine a ciel sereno (I 34).

Il pensiero della prima ode è semplice: « Fortuna, tu sei grande restituisci a noi salvo Cesare, che sta per portar guerra nella lontana Britannia, e i giovani che partono per l'Oriente, desiderosi di assoggettare a Roma Parti e Arabi. Noi siamo macchiati della vergogna delle guerre civili, essi no: rifoggia tu su incudine nuova il ferro smussato nelle lotte fraterne e vigila contro i nemici di Roma ». L'ultima parte arieggia I 2, Iam satis terris: lo stesso è il contrasto tra le due generazioni, lo stesso il senso del peccato che grava i coetanei del poeta sin dalla loro giovinezza, la stessa la riverenza per l'età nuova, immune, per sua felicità, da tali colpe. In ambedue i carmi ricorre, quantunque rigirata in maniera alquanto diversa, l'immagine del ferro: audiet civis acuisse ferrum, quo graves. Persae melius perirent, audiet pugnas vitio parentum rara iuventus. In tutt'e due le odi, sul labbro del poeta, non appena egli ha confessato con amarezza la colpa comune, si incalzano brevi domande angosciose. Tutt'e due i carmi finiscono supplicando un dio presente: qui la Fortuna, colà Cesare, che vendicherà sui Parti l'onore del nome romano. Orazio, che pure, anche nella poesia di cui ora diciamo, parla con accento di commozione sincera, si sarà accorto, artista qual era ben con

sapevole di sè e dell'arte sua, di trattare ancora una volta un tema frequente nella sua lirica in modo a lui consueto, quantunque con qualche novità di particolari. Più orgoglioso egli sarà andato dell'inno alla Fortuna, che occupa sette delle dieci strofe del carme (1).

Erra chi, solo perchè quest' ode principia O diva gratum quae regis Antium, la intitola « Alla Fortuna di Anzio»; scrittori e iscrizioni votive mostrano concordi che in quello che era stato un giorno il porto dei liberi Volsci e divenne durante l'Impero la villeggiatura marina forse più in voga tra il pubblico romano e più sontuosa, si adorava non soltanto una Fortuna: monete romane, dell'età suppergiù di questo carme, effigiano due profili di dee, coronata l'una di un diadema, coperto l'altra il capo di un elmo (2). Ma rimpicciolisce del pari il concetto del poeta chi chiama il carme « Inno alla Fortuna Augusta », o, meno incautamente, asserisce che nella ultima parte la Túxn ellenistica, signora del mondo, regina della storia, sia identificata con la divinità protettrice dell'imperatore, alla quale la devozione di un privato forse già nel 19 a. C. eresse un tempio in Pompei, ufficiato più tardi, dal 3 d. C. in poi, da un pubblico collegio di ministri (3). I poeti di questa età hanno talvolta precorso culti e riti accolti in seguito dalla religione dello

(1) Sul congiungimento dell' inno con la preghiera, frequente nella sua arte, v. sopra p. 173 sgg.

(2) WISSOWA, Religion, 259; due monete di Q. Rustio sono riprodotte dal BABELON, Monn. de la rép. rom., II 412, che fantastica troppo; l' USENER (Rh. Mus., LVIII, 1903, 202 sgg.) ha riprodotto un'altra moneta del medesimo magister, sulla quale manca l'attributo dell'elmo.

(3) HEINEN, Klio, XI, 1911, 157, 171. Naturalmente è poco men che certo che prima del tempio di Pompei ne saranno stati edificati molti altri.

stato (1), Orazio qui no (2); qui egli non fa se non invocare in fine del carme benigna a Cesare la grande dea Fortuna, e non soltanto a Cesare, ma del pari ai giovani i quali laveranno nel sangue dei barbari il ferro romano macchiato dalle stragi civili. Ma questa dea nella parte prima dell'ode non è esaltata esclusivamente quale protettrice del sovrano, quale Túxn Bastheta, come Augusto aveva imparato a venerarla dai sovrani ellenistici (3). È probabile che, come credono i commentatori, Orazio, vantando la dea praesens imo tollere de gradu mortale corpus, pensi e voglia che i lettori pensino al figlio della schiava, che ascese il trono di Roma e dette alla città. prisca la sua costituzione, Servio Tullio: chè mortale corpus, quantunque non voglia dir altro che mortalem hominem, ha in sè una sfumatura che conviene, meglio che a ogni altro, a un servo (4), e ciascun Romano aveva presente quanti tra gli innumerevoli culti cittadini della Fortuna fossero attribuiti a Servio Tullio (5), grato alla

(1) Vedine un esempio più indietro, p. 185.

(2) Per prevenire interpretazioni fantastiche sarà opportuno notare che, sebbene già Augusto e Tiberio prediligessero il soggiorno di Anzio, pure non è noto che le Fortune di quel santuario fossero connesse in qualsiasi modo con la famiglia imperiale, prima che a Nerone nascesse colà una figlioletta (Tac., Ann. XV 23).

(3) Cfr. il trattato tra Magneti e Smirnei Or. gr. 229, 61. I Greci di Mylasa invocavano già ai tempi del dominio persiano la Tón del re, come prova la dedica CIG 2693 b.

(4) Come nelle iscrizioni greche e nei papiri σῶμα ἀνδρεῖον γυναιzatov indicano rispettivamente uno schiavo o una schiava, così i Romani sogliono adoprare la voce corpus particolarmente dov'è parola di uomini non liberi o che appunto stanno perdendo la libertà: Liv. III 56, 8 qui liberum corpus in servitutem addixisset; V 22, 1 postero die libera corpora dictator sub corona vendidit; Plin., paneg. 33 cum in servorum etiam noxiorumque corporibus amor laudis et cupido victoriae cerneretur. Molti esempi sono raccolti in Thes. IV 1016.

(5) L'elenco forse più completo dei templi della Fortuna da lui fondati è dato da Plutarco (de fort. Rom. 322 f sgg.),

dea che lo aveva sollevato di basso grado. Ma gli stessi commentatori suppongono, credo con altrettanta ragione, che, nel leggere le parole seguenti vel superbos vertere funeribus triumphos, a ognuno venisse in mente il vincitore di Pydna, L. Emilio Paullo, che perdette due figli nel giorno del suo trionfo: non dunque un re, ma un cittadino eminente di Roma repubblicana. Certo, lei temono madri di re barbari e tiranni ravvolti nella porpora; ma del pari inalzano a lei la preghiera popoli interi, dai più civili ai selvaggi, dai fieri Latini ai Daci e agli Sciti dalle mobili case; del pari la supplicano con cuore ansioso il contadino povero e l'avido mercante. Essa abbandona non soltanto i re, ma anche possenti privati, che hanno usato dei suoi doni senza scrupoli e senza discrezione.

Questa dea è sì anche, come mostra il seguito del carme, quella Fortuna che i suoi adoratori romani sfaccettavano in mille innumerevoli aspetti contrassegnati ciascuno da un nome proprio, Fortuna muliebris virilis, publica privata, equestris, bona mala, dubia stabilis, dux redux, respiciens brevis, Fortuna huius diei, perfino barbata e viscata, la dea che si spezza in tanti esseri quante sono le genti, le famiglie, gli uomini romani che la vogliono per sè. Ma nelle prime strofe essa è la Túx, quale l'avevano venerata una gli antichi Greci, e con profondità maggiore di concezione i poeti; quale nell'era ellenistica le vicende incredibilmente rapide e varie di privati e di regni avevano di nuovo rivelata al cuore degli uomini (1); la figura enigmatica che dominava nella storia di quell'età non nota a noi se non da frammenti; che domina ancora nelle opere di Dionigi e di Diodoro, le quali da quegli scritti ora perduti hanno ritratto fatti e pensieri; il potere oc

(1) Sulla concezione ellenistica della Tóx cfr. le belle pagine del ROHDE, Roman, 276 sgg.

culto sul cui eternamente alterno cozzare e accordarsi con la forza del volere umano dirittamente regolato, con il merito, l'apet, disputa Plutarco, trattando del re che, mentre sembrava tener la dea più che mai in pugno, fu da lei colpito a tradimento, Alessandro, e della città nella quale essa ha ormai fermato il volo per sempre, Roma.

Certo, Orazio ha voluto comporre un carme romano, e la sua non può essere infatti < riduzione » o «< traduzione di una poesia ellenistica. L'ode prende le mosse da un antico culto latino; e accenna subito nella prima strofa a un re e a un capitano romano che furono esempio cospicuo del potere della Fortuna. Non saprei dire se nello scrivere praesens (1) vel imo tollere de gradu mortale corpus Orazio si sia rammentato di un passo del romano Ennio (ann. 312), imitato anche da Lucrezio (III 1035), in cui il concetto, per dir così, complementare è espresso con parole simili: mortalem summum Fortuna repente reddidit e summo regno ut famul infimus esset. Dall'un canto il pensiero che la Fortuna fa scambiar posto alle cose più alte con le più basse è comune (2), perchè implicito nella concezione della dea; e qual cosa più sublime che un re, quale più vile, per gli antichi, che un servo? Dall'altro mortalis per uomo, quantunque con sfumatura un

(1) I commentatori interpretano praesens = potens, e hanno all'ingrosso ragione; ma perchè Orazio ha scritto proprio praesens ? A me non pare improbabile che egli qui incarnasse in quella parola il concetto che i Greci esprimono con лavis; quei di Mylasa chiamano appunto navi una Fortuna, quella del re. Un šлçavýc ὑψοῦν ἢ ταπεινοῦν non sorprenderebbe nessuno in un carme greco.

(2) Così nell'inno alla Tyche, scoperto in un papiro di Berlino, di cui abbiamo discorso a p. 169, si dice della dea: «Tu abbassi a terra, avvolgendolo di nubi, ciò che splende in alto ed è venerabile, sollevi spesso in alto sulle tue ali ciò che è basso e vile ».

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