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E neanche il confronto della femmina rapace e tenace con i mostri celebri della favola sarà preso da Anacreonte: chè esso, se non erro, appartiene a quello stesso tempo a cui risale l'interpretazione allegorica e moralistica di Omero e in genere di ogni mito. Infatti le etere non hanno soprannomi presi in prestito da tali portenti se non nella commedia di mezzo. I commentatori sogliono opportunamente citare un passo della Neottis di Anaxila (Athen. XIII 558 a sgg.), nel quale le etere sono prima confrontate in generale con dragonesse o con la Chimera spiratrice di fiamma o con Cariddi o con Scilla tricipite, con la Sfinge, l' Idra, una leonessa, una vipera, le schiatte alate delle Arpie, e poi ciascuna delle più famose etere attiche è comparata in particolare con uno di questi mostri Plangon « mette a ferro e fuoco» i barbari come la Chimera; solo un cavaliere scampò da essa la vita, lasciandole tutte le sue suppellettili e fuggendo di casa. Nannion è Scilla, perchè, divorati due compagni, va a caccia del terzo, e buon che questo si è salvato con remo di abete! << Ma Frine poco lontano fa la parte di Cariddi, e, afferrato il nocchiero, se lo è inghiottito con tutta la nave ». Anaxila è contemporaneo di Platone: noi vediamo che questo nei suoi dialoghi combatte contro persone che ricercavano nei poemi omerici le úлóvοα, significati profondi e riposti (Ion. 530 c, se è autentico; Resp. II 378 d e altrove). Il suo contemporaneo più vecchio, Antistene, che aveva composto su Omero una quantità quasi incredibile di opere (Diog. Laert. VI 17-18), riduceva i personaggi omerici a tipi ideali di virtù e di vizi (1), come più tardi gli Stoici, come Orazio stesso nella seconda

(I) Cfr. gli scolii al primo verso dell' Odissea: un giudizio equilibrato sull'interpretazione omerica di Antistene dà ERNST WEBER, Leipziger Studien, X 226 sgg.

epistola del libro primo (1). Non siamo certi che, procedendo ancor oltre, egli allegorizzasse, umanizzandoli, anche i mostri omerici. Pure, o egli stesso o qualche sofista contemporaneo o di poco anteriore deve aver fatto questo passo, se Anaxila e forse i belli spiriti della società attica di quell'età identificarono i mostri con meretrici, certo servendosi a fini scherzosi di metodi che la scienza prendeva sul serio. E infatti per il più grave storico del quarto secolo, se non i mostri omerici, almeno il Pitone non è un drago, ma un uomo chiamato drago per la sua crudeltà (2). Nella letteratura posteriore tali interpretazioni dilagano per Callimaco (fr. 184) Scilla è una yuvǹ xatáκασσα καὶ οὐ ψύθος οὔνομ ̓ ἔχουσα, una donna di mal affare e che non portava a torto il suo nome: egli intende qui certamente parlare non della Scilla omerica ma della figlia del re di Megara, Niso, che tradì a Minosse il padre e la patria, ma l'espressione non ha alcun sapore se non per chi sappia come il confronto tra cortigiane e la Scilla omerica fosse diffuso. Dall' età alessandrina in poi, quel genere di esegesi invade anche i compendii più o meno scolastici: per il cosiddetto Eraclito de incredibilibus (p. 73, 13 Festa) la Scilla omerica è un'etera; una cortigiana è pure la Chimera per lo scoliasta townleyano dell' Iliade (Z 161). Meleagro finisce un epigramma (AP V 190), in cui paragona sè a una nave che va alla deriva per il mare di amore: « Vedremo di nuovo Scilla lussuriosa », cioè torneremo all'amata da cui ci credevamo liberi per sempre. Nè fa maraviglia il favore di cui godono spiegazioni così puerili: lo scorgere nei mostri omerici, ogniqualvolta sono di sesso femminile, donne belle e lascive,

(1) Cfr. anche la quinta satira del secondo libro.

(2) WIPPRECHT, Entwicklung der rationalistischen Mythen deutung II (Tubingen 1908), p. 9.

conveniva perfettamente a gente che faceva dei re del passato benefattori dell'umanità, la quale riconoscente tributa loro culto; Leone di Pella ed Ecateo di Abdera si sono fatti paladini di questa concezione, che grazie ai romanzi di Euemero e di Dionisio Skytobrachion (1) venne in voga sì da impadronirsi di tutti gli spiriti; questa fu anche la fede di Orazio: Caelo Musa beat: sic Iovis interest optatis epulis impiger Hercules con quel che segue.

Tutta la seconda parte dell'ode oraziana rispecchia il sentire proprio della società e della letteratura ellenistica ed ellenistico-romana. La nostra analisi ha messo in luce che qui Orazio esprime il mondo lirico suo, ricco di elementi ellenistici, senza attingere a carmi determinati. Rimane a dire una parola sulla tecnica della composizione. Che Orazio finga di cantare, mentre l'azione gli si svolge dinanzi agli occhi, non fa maraviglia: questa è arte consueta in lui, come mostra il carme per il ritorno dell'Augusto, III 14, Herculis ritu. Noi credevamo questa tecnica invenzione ellenistica: Callimaco descrive spesso liricamente corteggi e riti, man mano che si svolgono. Ma quel che è conservato dell'ode di Anacreonte, mostra chiaro che già gli antichi Ioni conoscevano e sfruttavano abilmente artifici di tal genere. Poichè non è il caso di pensare a rappresentazione, poichè questa è non arte mimetica, ma riproduzione, ma stilizzazione letteraria di forme mimetiche; da quel carme si dovrà conchiudere che già Anacreonte pensa, scrivendo, al libro, quando anche i suoi carmi siano stati sovente recitati davvero in banchetti.

(1) Intorno allo svolgimento del sistema, cfr. nell' Enciclopedia di PAULY-WISSOWA, l'articolo dello SCHWARTZ su Dionysios Skytobrachion e quelli del JACOBY su Hekataios von Abdera ed Eumeros.

b) IL SENTIMENTO DELLA NATURA.

Pensieri e sentimenti di Orazio lirico sono spesso determinati dalla natura che lo circonda: egli o si sente in accordo perfetto con essa o si ribella alle impressioni che da essa riceve. Ai soffi tepidi del vento di primavera, insieme con il ghiaccio, che copriva pur dianzi le campagne, fonde il gelo, che stringeva il cuore del poeta; non appena i venti hanno cessato di scuotere cipressi e ornelli, torna in pace anche l'animo. L'avvicendarsi rapido delle stagioni, l'alternarsi incessante della vita e della morte nelle cose che diciamo inanimate, invita il poeta a profittare dell'ora. Il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli, lo eccita a cercare nel vino e nell'amore difesa contro le cure del domani; il fuoco e il vino devono aiutarlo a mettere in bando non solo dal corpo ma dall'anima il freddo, che sale a essa dalla contemplazione del paesaggio nevoso. Orazio sente la natura (1), perchè gode con lei e perchè si ribella quando ella lo invita a rattristarsi con lei; vale a dire, egli sente di dipender da lei.

Ma egli connette la natura con l'uomo in genere, con se stesso in particolare; non sa uscir di sè per sprofondarsi

(1) Del Sentimento della natura in Catullo ed Orazio ha discorso M. Vattasso in una dissertazione di laurea pubblicata nel 1910 (Fossano), ma scritta nel 1895. L'autore raccoglie tutte le immagini e le espressioni dei due poeti connesse con fenomeni naturali, senza vagliare quanto di esse sia bagaglio tradizionale, quanto manifesti sentimenti del poeta. Del metodo infantile non faremo carico a uno studioso che ha fatto opera così utile in altre parti delle scienze storiche. Il vecchio libretto di KARL WOERMANN, Ueber den landschaftlichen Natursinn der Griechen u. Römer (Monaco, 1871) pare a me di finezza pur sempre insuperata, ma il giudizio su Orazio non mi sembra equo.

tutto in lei. Nella campagna egli cerca riposo e sollievo allo spirito stanco, vita più conforme che la cittadina ai dettami della ragione non corrotta. Nulla è per lui più dolce che starsene sdraiato nell'erba alta, all'ombra fitta di alberi, porgendo tra il sonno l'orecchio al mormorio uguale di un ruscelletto. Per contro, egli non sa contemplare con gioia profonda il cader della neve e la furia del mare e la lotta dei venti nel bosco, ma vi affisa lo sguardo solo un momento e ne lo ritorce via subito con raccapriccio, per gustare meglio, con gioia memore del raccapriccio, la stanza ben riparata, il vino, l'amore. Nel paesaggio egli ricerca non maestà nè sublimità, ma amoenitas.

E conforme a questa disposizione del suo spirito egli rappresenta quasi sempre paesaggi idillici, bucolici. Come non descrive, tranne un'unica volta, della quale presto discorreremo, l'alta montagna, se non quale sfondo lontano, così non si compiace di mostrarci l'ondeggiar delle messi, ma ci pone piuttosto dinanzi agli occhi monti boschivi di altezza mediocre, prati declivi, fonti ombreggiate spiccianti dalla roccia viva. Egli non sembra sentire ciò che in natura è più grandioso. Nel carme per molti indizi giovanile, nel quale vanta Tivoli sopra ogni altro soggiorno più ricco di ricordi e più favorito dalla natura (I 7), non trascura di nominare il bosco sacro di Tiburno e il santuario della dea Albunea risonante di acque correnti (1); s'indugia con amore sui frutteti fre

(1) I versi di Virgilio, (Aen. VII 82 sgg.) lucosque sub alta consulit Albunea, nemorum quae maxima sacro fonte sonat saevamque exhalat opaca mephitim, mi sembra che mostrino esser Albunea piuttosto la ninfa del bosco che del fonte, il quale poteva, a dir vero, avere lo stesso nome che il bosco, come osserva Servio. Kiessling-Heinze asseriscono che domus significhi qui la « grotta » descritta da Virgilio, ma questi di grotta non fa parola. A ogni modo il sacello di Albunea

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