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greco contemporaneo (1). Si consideri appunto la tecnica di Catullo e di Orazio, e se ne rimarrà convinti.

Questa tecnica del « principio-motto » è stata osservata solo in tempi recenti, e non poteva infatti essere scoperta, prima che non fosse scomparso il pregiudizio, qualche anno fa ancor più diffuso che non ora, che Orazio fosse un Alcaeus dimidiatus come Virgilio un dimidiatus Homerus. La concezione dell'arte lirica di Orazio che io difendo, si è fatta in qualche modo strada dal giorno che la scoperta di alcuni versi di un epodo di Archiloco mostrò che Orazio non ha nei Giambi, nonchè tradotto il Pario, neppure tolto da esso situazioni determinate, ma solo imitato il tono e lo stile (2). Già lo studio. dell'ode a Varo conferma che a un dipresso lo stesso si deve dire anche delle odi, come hanno già veduto, per citare solo alcuni tra i maggiori, il Reitzenstein, il Wilamowitz, il Norden (3). L'analisi accurata, quale ce la siamo proposta, delle altre odi, per le quali sono conservati riscontri nella poesia lesbia, giova tuttavia a determinare più precisamente, quale sia stata la relazione tra Orazio e i suoi modelli, com'egli abbia conce

(1) QUINTILIANO discute seriamente dei vantaggi e dei pericoli per l'educazione morale che presenta nella scuola la lettura di Alceo; sembra dunque supporre che essa fosse consueta: X, 1, 63 Alcaeus in parte operis aureo plectro merito donatur, qua tyrannos insectatus multum etiam moribus confert, in eloquendo quoque brevis et magnificus et diligens et plerumque oratori similis, sed et lusit et in amores descendit, maioribus tamen aptior. Però questo periodo fa parte di una serie di capitoli nella quale sono nominati anche scrittori che in quel tempo certamente nessuno leggeva più, cosicchè sarà più prudente astrarre da questa testimonianza.

(2) Cfr. Leo, de Archilocho et Horatio, progr. di Gottinga, 1900. (3) AL NORDEN nuoce tuttavia quel pregiudizio che ho pur dianzi combattuto.

pito la sua dipendenza da essi, come si accordino queste derivazioni con l'uso larghissimo ch'egli fa dei motivi presi dalla poesia ellenistica, in qual misura e in qual modo e con quali mezzi tecnici egli abbia trasformato la materia tolta da altri. La nostra ricerca si rivolge ora all'ode che si ritiene imitazione più servile di un carme di Alceo, a un'ode per la quale, come fin d'ora occorre confessare, la formola « motto » è insufficiente e inadeguata.

Il carme I 14 è stato spiegato allegoricamente già dagli antichi commentatori, dai quali attinge Quintiliano (VIII, 6, 44). Soltanto in tempi recentissimi R. Kukula (1) ha osato negare il carattere allegorico di questa poesia, che secondo lui è un vero propemptico indirizzato alla nave sulla quale Augusto nell'anno 30 compiè la traversata da Samo a Brindisi e ripartì poi 27 giorni più tardi per le Cicladi e l'Asia Minore: secondo il Kukula il poeta ha scritto o finge di aver scritto l'ode nell' intervallo tra i due viaggi. L'ipotesi è attraente, tanto più che Svetonio (Aug. 17, 3) ne informa che la nave che portò Augusto da Samo a Brindisi, aveva perduto il timone e una parte dei cordami; attraente ma errata. Innanzi tutto nei ventisette giorni Augusto avrà avuto cura di far riparare la sua nave ammiraglia; e, se non gli fosse per qualsiasi ragione riuscito, ciò che non è facile a immaginare, di farvi mettere timone e gomene nuove, avrebbe fatto il viaggio su di un'altra nave: siccome, a quel che narra Svetonio, egli era partito per l'Italia con tutta una squadra di navi, e solo una parte di esse era andata perduta nella bufera, non avrebbe avuto altro imbarazzo che quello della scelta. Che quegli ch'era ormai il dominatore onnipossente del mondo,

(1) Wiener Studien, XXXIV, 1912, 237.

sia partito da Brindisi su una nave che faceva acqua, è congettura assurda; nè qui giova richiamarsi a una più alta verità poetica. Orazio cadrebbe nel ridicolo, se dicesse mal ridotta una nave rimessa a nuovo o parlasse di due navi diverse come se fossero una sola (1). E poi un propemptico può incominciare in tutte le maniere fuorchè O navis, referent in mare te novi fluctus; o dobbiamo forse immaginare che una nave, che voleva appunto uscire dal porto in mare, avesse poi timore di ciò che voleva (2)? fortiter occupa portum suona ben altrimenti che l'εüпλoos öpμov ixoto di Teocrito VII, 62, che è un augurio benevolo, mentre la frase oraziana fa piuttosto l'impressione di un ammonimento severo, cui l'o quid agis? premesso aggiunge ancora forza; enλoos Epμov Exoito, così parla chi considera solo in generale i pericoli della navigazione; fortiter occupa portum esclama chi vede una nave in pericolo: occupa è l'azione di un momento, e il fortiter si può riferire solo a un bastimento che in vicinanza del porto combatte con i marosi. Il peggio è che neppure l' interpretazione del Kukula riesce a evitare. lo scoglio dell'allegoria, tant'è vero che le parole nuper sollicitum quae mihi taedium, nunc desiderium curaque non levis indicano anche secondo lui una « nausea morale », o, per meglio dire, si riferiscono piuttosto alla situazione politica generale che non alla nave ammiraglia di Augusto.

È pur sempre preferibile l'antica interpretazione alle

(1) Dalle parole del KUKULA parrebbe che nelle nostre fonti fosse menzione di un viaggio e di una nave determinata, ciò che

non è.

(2) L'interpretazione che il KUKULA dà del v. 15 « se non hai l'obbligo morale di esporti alla furia della tempesta » è senza dubbio errata; da quando in qua γέλωτα οφλισκάνειν contiene una sfumatura etica ?

gorica. Così ha inteso il nostro carme Quintiliano, che pure respirava la stessa aria intellettuale del nostro poeta. Orazio stesso accetta altrove (epist. I, 2) i metodi cinicostoici d'interpretazione omerica, che possono ben dirsi simbolici, giacchè riducono gli eroi a rappresentanti di diversi generi di vita. La nave di Alceo (fr. 18) è interpretata così già dallo Pseudoeraclito (Probl. hom. 5), che, in qualunque tempo sia vissuto, attinge a ogni modo a fonti ellenistiche; e riesce difficile immaginare che la Stoa si sia lasciata sfuggire un'occasione così bella di annodare considerazioni morali a un testo classico. Orazio avrà dunque letto Alceo in un'edizione commentata, che gli sarà stata indispensabile anche per il dialetto, avrà trovato in essa l'interpretazione allegorica, e dalla poesia di Alceo intesa allegoricamente avrà tratto l'ispirazione di questo carme.

Coll' interpretazione allegorica molte difficoltà scompaiono immediatamente. Il poeta sta sulla riva e guarda il mare tempestoso. Una nave, ridotta male dalla tempesta, è pur riuscita con grande stento a giungere quasi alla bocca del porto, ma una nuova furia di vento e di onde la ricaccia di un tratto verso l'alto mare. Orazio si rivolge alla nave: « Perchè non resisti con più tenacia? Se non riesci ora a entrare in porto, tu sei perduta. Hai perduto il timone, l'albero è spezzato, fanno acqua le travi, che, prive ormai delle funi che le tenevano strette, non hanno più forza di resistere ai flutti. Le vele sono lacere, le immagini degli dei tutelari sono state spazzate via dalle onde. Per quanto fatta di legno di pino pontico, per quanto nobile e celebre e quantunque ridipinta di fresco, è difficile che ti salvi; una volta respinta di nuovo in alto mare, sarai zimbello dei venti. Tu che mi fosti pur dianzi ragion di disgusto, che eri ora la mia cura e il mio amore, guai a te se capiterai nei labirinti

rocciosi delle Cicladi! ». Il Ponto è menzionato perchè il miglior legno per navi veniva di lì, senza che per questo vi sia bisogno di pensare a una reminiscenza del celebre. phaselus catulliano: trucemve Ponticum sinum, ubi iste post phaselus ante fuit comata silva; nam Cytorio in iugo loquente saepe sibilum edidit coma. Che anzi la reminiscenza mi pare esclusa da considerazioni stilistiche. Orazio avrebbe guastato l'effetto del suo carme, richiamando alla memoria dei lettori un lusus, uno scherzetto poetico. Le Cicladi sono nominate in questa poesia, perchè gli stretti tra l'una e l'altra erano noti per pericolosi e fors❜anche perchè erano state spesso cantate dai poeti; ma non si può dire se Orazio alluda a un passo determinato di Alceo. In simile modo egli menziona altrove l'Egeo (c. III, 29, 57): non est meum, si mugiat Africis malus procellis, ad miseras preces decurrere et votis pacisci, ne Cypriae Tyriaeque merces addant avaro divitias mari: tum me biremis praesidio scaphae tutum per Aegaeos tumultus aura feret geminusque Pollux. Il Ponto e le Cicladi sono nominati con speciale riferimento alla nave; il sollicitum taedium, il << disgusto inquieto », che esprime bene lo stato d'animo di Orazio negli anni che seguirono Filippi, quand'egli non voleva più sentir parlare di politica e di politica era in fondo più appassionato che mai, si attaglia meglio allo stato romano che alla nave; alla nave conviene meglio il desiderium, perchè non si può desiderare se non ciò che è assente; cura è detto bene di ambedue. Un tale conflitto di epiteti è inevitabile in qualsiasi allegoria.

L'immagine corrisponde così bene alle condizioni dello stato romano (1) negli anni immediatamente pre

(1) Chiedere con il KUKULA ad Orazio, quale partito sia per lui rappresentato dal rottame, è temerario; il poeta avrebbe probabilmente risposto: ree Romana.

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