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posto nella sala dove potesse starsi al coperto e là aveva il

planter posto

due ragazzine che aveva seco. Non rimaneva agli altri che la belle étoile, quantunque appena passata Makongai la pioggia avesse cominciato a cadere a torrenti. E pure è tanta l'abitudine che si fa ai disagi che a bordo del piccolo skooner» non mancarono, quando la pioggia era men forte, di dormire placidamente come in un letto. Comunque sia, poco dopo il sorgere del sole, l'aliseo avea disperso le nubi e li aveva spinti con bastante velocità verso il loro destino, cosicchè a mezzogiorno davano fondo dinanzi alla piantagione in un piccolo seno della gran baia di Savu-Savu.

Questo stabilimento non differiva gran fatto da quello di Koro. L'unica, ma grandissima differenza che passava fra le due piantagioni, derivava dall'essere il nuovo ospite del Branchi ammogliato. La pulizia che regnava in casa, la biancheria lindissima, un certo ordine ed una maggior sottomissione nei servi, alcuni dei quali erano già in grado di prevenire i bisogni e di provvedervi il desinare, se non cotto alla francese, preparato almeno nel miglior modo possibile; un pollaio ben fornito, un giardino pieno di fiori e di limoni utilissimi in caso di malattia, un lavatoio e mille altre cose che noi abbiamo tutti i giorni e che non si apprezzano se non quando non le si possono avere, erano tutte l'effetto della medesima causa, la presenza e la sorveglianza d'una donna.

Quel che specialmente il Branchi aveva raccomandato al suo ospite, si era di farlo assistere ad uno dei così detti mechi-mechi o danze notturne dei Figiani. Una sera, essendo la notte oscurissima e senza luna, fu dato l'ordine di allestirla. I lavoranti figiani della piantagione erano gli attori, mentre quelli di altri arcipelaghi provvedevano all'illuminazione. Alle 7 cominciarono a radunarsi in una spianata dinanzi della casa e poco dopo un rullo, simile in parte a quello dei nostri tamburi, ma suonato sopra uno strumento ben più primitivo, chiamò gli uomini a raccolta. Questo strumento consiste in un pezzo qualunque di legno durissimo, levigato al disopra e sorretto con due mani da un indigeno. Un altro vi batte sopra con due bacchette che, rimbalzando sul legno, danno un suono argentino che si sente a grande distanza e serve poi per battere il tempo durante il canto e la danza.

Riunitisi intanto in crocchio e continuando sempre il tamburo a battere, incomincia a un tratto il canto. Due uomini, che si cambiano a ogni strofa, fanno l'uno l'alto e l'altro il basso d'una canzone nasale e abbastanza monotona. Finita la strofa tutti gli altri la ripetono in coro. Da prima la musica va lentamente: a grado a grado il tamburo accelera il tempo, mentre gli uomini si distendono in circolo per prepararsi alla danza. A poco a poco taluno di essi principia a contorcersi, poi l'intiero circolo lo segue girando a tondo. Ed allora il canto si fa più sonoro, più rapido e ad ogni nota corrisponde una contorsione di tutti i membri del corpo che sembra dover a dirittura finire in salti mortali. Terminata la strofa, tutti battono le mani, gettano un urlo e si fermano di botto con un tempo degno della migliore orchestra dello Strauss.

Nello stesso modo si rappresentò la guerra e le fucilate, mettendo in linea coll'occhio i due pollici, come fanno i ragazzi in Europa e si volle perfino rappresentare una dichiarazione d'amore con contorsioni così terribili che lasciavano in dubbio se si trattasse di quel tenero affetto o piuttosto di un assalto di

forti coliche. Tutto ciò con un'illuminazione fantastica, fatta con pezzi di bambù, la cui luce ineguale ora spandendo un gran chiarore sui danzanti, ora quasi estinguendosi, faceva rabbrividire pensando che forse un anno prima quegli stessi selvaggi avevano danzato su corpi umani, e dubbiando se non vi fosse pericolo che in un momento di entusiasmo si decidessero a batter la zolfa un'altra volta sui pochi europei che stavano ad osservarli.

Il Branchi assistette anche, pochi giorni dopo, ad altre danze differenti, essendosi recato in una piantagione vicina a visitare certi terreni che si dicevano ammirabilmente adatti alla coltura della canna da zucchero. Egli partì un mattino in battello, guidato da due robusti rematori, e percorse in tutta la sua lunghezza la grande baia di Savu-Savu, visitandone i seni, sbarcando nei villaggi, sia in cerca di curiosità figiane, sia per procurarsi noci di cocco ed altri frutti per ristorarlo, co' suoi compagni, dopo molte ore passate sotto la sferza di un cocentissimo sole. A Vailib, il più gran villaggio di quella costa, egli trovò il paese tutto sottosopra per l'arrivo di Tui-Thakau, il potente capo di Koma-Koma, signore per così dire feudale di Taviuni e Vanua Levu, quello stesso che nei tempi decorsi disputava a Thakombau e Maafu (capo Tongano di LomaLoma) la supremazia delle isole.

Nella piantagione eravi una riunione simile di orribili favelle quale forse non sarebbe facile di trovare altrove. I lavoranti appartenevano alcuni alle isole Salomone, altri al piccolo arcipelago di Banks che sta sopra la Nuova Caledonia, ed altri finalmente alle isole Tokelau. I primi sono forse gl'isolani più neri del Pacifico. La lucidezza della pelle rammenta i negri africani; i lineamenti però sono del tutto malesi. Una cosa li distingue dagli altri ed è l'abitudine di prolungarsi artificialmente le orecchie, cosicchè alla fine scendono loro sulle spalle e vi cacciano dentro come in una tasca, la pipa, il tabacco e gli altri oggetti d'uso giornaliero. Gli abitanti dell'arcipelago di Banks sono d'un colore bronzo cupo, hanno barba e lineamenti quasi semitici come i Polinesii, ma si riavvicinano alla razza melanesica pe' capelli lanosi, la lingua gutturale e la ferocia del loro carattere. I Tokelau infine, quantunque non eguaglino in bellezza e fattezze nè i Tongani nè quei di Samoa, pure sono evidentemente della stessa razza. Hanno i capelli lisci dei Polinesii ed un color di rame chiaro, tendente al rosso d'America.

Tutta questa gente volle dare in onore del Branchi un concerto della loro musica nazionale. Una sera perciò Branchi ed il suo ospite, finito il loro pranzo frugale di iam, taro e carne salata, si diressero al quartiere abitato dai lavoranti per assistervi. Essi sono, fra tutti gl'isolani del Pacifico, gli unici che tentino effettuare vera e propria musica, quantunque non sia musica italiana, nè dell'avvenire. Il loro strumento principale è la zampogna di Sileno, ma raddoppiata in modo da produrre con una fila di canne i toni e coll'altra i semitoni. La divisione dell'orchestra era abbastanza ingegnosa. Uno infatti faceva l'alto con una specie di ritornello, mentre le altre zampogne l'accompagnavano con note più basse, variate di tanto in tanto da qualche altissimo; al tempo stesso un paio d'individui seduti ad una certa distanza facevano il basso generale, soffiando in alcuni grossi bambù che producevano un suono cupo, simile all'avvicinarsi del tuono (in miniatura).

Finita la gita, visitato da per tutto Savu-Savu, e le piantagioni circonvicine, il Branchi s'imbarcò di nuovo sul Flying Fox che doveva ricondurlo a Levuka. Questa volta però il viaggio non doveva esser fortunato come nell'andata, giacchè appena usciti dalla baia e oltrepassata la barriera corallina, un colpo di vento tagliava a dirittura le sartie, che sostenevano l'albero dalla parte di sottovento. Con alcune corde di ricambio poterono riparare il danno, ma il vento soffiava più forte e ad ogni ondata l'acqua aumentava nella stiva, senza avere per vuotarla che un ordigno antidiluviano che trovavasi casualmente a bordo.. Il Branchi, visto la mala parata, presa la direzione della navicella, e postosi al timone, la spinse verso un'isoletta deserta a poche miglia dall'ingresso della baia di Savu-Savu. Mezz'ora dopo erano al coperto, e potevano riparare le avarie, tappare con frasche e tele i boccaporti e prepararsi al viaggio dell'indomani. La mattina all'alba ripresero il mare e dopo un viaggio indiavolato di sette ad otto ore col pericolo ad ogni momento di naufragare, giunsero fradici sino alle ossa a Levuka.

(Sard continuato).

TERZO VIAGGIO DEL CAP. S. MARTINI ALLO SCIOA

Gentilissimo Sig. Cav. Guido Cora,

Ambos, 5 settembre 1879.

È impossibile, almeno così voglio lusingarmi, che Guido Cora non abbia più volte, dal momento che lasciammo l'Italia, pensato alla mia promessa di rivolgergli, quando ne avessi la possibilità, lettere, e che non sia anche arrivato a sfavorevolmente concludere poichè nulla ancora io gli ho indirizzato.

E nemmeno lo potevo, a meno d'inviargli racconti nulli, su cose futili, poichè fino ad oggi contro ogni mio volere rimasi stazionario alla costa, costretto ad attendere che la carovana del Re subisse le fasi destinate da vecchie consuetudini alle carovane provenienti dall'interno e destinate a rientrarvi.

Pur troppo io giunsi in Zeila il 20 aprile dell'annata in corso e non ho potuto mettermi in istrada che il 5 ottobre 1.

Le pubblicazioni della nostra Società Geografica l'avranno già informata come poco dopo il nostro arrivo, cioè il 30 aprile, giungesse la carovana del Re Minilek in Zeila, dove a quella come ad ogni altra di egual destinazione e provenienza occorreva tempo per riaversi, per curare gli ammalati, esitare le merci portate dalla loro patria, provvederne altre, rifornirsi di viveri e mezzi di trasporto, traffici tutti da effettuarsi soltanto in Aden, in Berbera, in Tugurra, dove gli affari non hanno quel lesto disbrigo come l'impazienza di qualche bollente duce avrebbe voluto, e che ci costò poi partenze simulate per non dire altro.

Probabilmente deve leggersi 5 luglio.

GUIDO CORA, Cosmos, vol. 5o, 1878-79, fasc. IX.

G. C. 42

E qui debbo dirle come in seguito a tali considerazioni più volte anche in Italia io insistessi per attendere pazientemente l'annunzio dell'arrivo della carovana alla costa non solo, ma ancora l'avviso del nostro R. V. Console di Aden per lasciare l'Italia solo quando dietro suo officiale avviso si avesse avuta certezza che la detta carovana era presso che pronta ad intraprendere il viaggio di ritorno; ma si volle la nostra partenza senza indugio, e se subiamo ora le conseguenze d'una lunga sosta, non possiamo sorprendercene.

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Disgraziatamente non potei impiegare quel tempo come Cora avrebbe voluto e come pure io avrei desiderato, percorrendo il paese dei Somali, rilevandone i punti più importanti ed aumentare così i nostri lavori, ma dopo il disastro toccato al C.te Antonelli ad Abasiun, essendo i Somali in rivolta per la rappresaglia fatta dall'Emiro, mi fu tolta ogni possibilità di effettuare quei progetti a meno che non avessi potuto sobbarcarmi a gravi spese di scorte ed invio di doni ai capi Somali; così i miei lavori si restringono a tutt'oggi al rilevamento astronomico di soli tre punti, ad una imperfetta statistica sui commerci per le vie dell'Harrar, Scioa e Paesi Galla, ed a qualche disegno-appunto dei costumi Somali e Danakil, dei quali mi permetto compiegargliene 2 abbozzi, pregandola a rammentarsi che io mai fui disegnatore che per prendere alla lesta appunti di viaggio. Le ho designata imperfetta quella statistica commerciale, poichè come è egli possibile ottenere una precisione approssimata dove tutto è mistero, se non alterazione?

Io vidi quella statistica riportata in alcuni periodici giuntimi dall'Europa con l'ultimo corriere, abbreviata, non so come, della sola condizione sotto la quale soltanto si può sperare uno sviluppo commerciale, al che è inutile pensare se prima l'Europa non si decide (e sarebbe tempo) o con presa di possesso o con ben intesi consolati a stabilirsi alla costa affine di tutelare interessi e vita di coloro che volessero tentarne la prova eLupus est in fabula..

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Ora in questo momento il Pascià Emiro Abubakr lascia la mia tenda dove era venuto pregandomi interpormi presso il Consolato Italiano in Aden affinchè sieno fatte pratiche presso il Governo Inglese per sorprendere una barca proveniente da Balul, in rotta per Aden, carica di oro, caffè, pelli, avorio, ed altre mercanzie tolte ad una carovana di un mercante Abissino depredato ed ucciso dagli Assaimarat situati fra la baia di Assab e Belul e ora sottoposti al loro capo Hanfali Mohammed, rinomato per la sua ferocia nonchè per il selvaggio suo popolo. Ho tutto da credere che quel mercante volendo scansare Abubakr abbia presa la via del lago d'Aussa e sia caduto in un male peggiore.

Ella veda quanto quel nostro Tricolore seriamente qua trasportato sia necessario prima di darsi a speranze di riescite commerciali.

Mi resta ora a parlarle dei miei progetti, cosa veramente difficile a farne in Affrica.

Io conterei, giunto allo Scioa, esigere dal Re che mi mantenga la promessa fattami di farmi raggiungere i miei compagni Cecchi e Chiarini se saranno raggiungibili, altrimenti di usare tutta la sua influenza per farmi procedere verso il Nianza per la via del Guraghe e di là.........?

Le nostre carte non sono molto fornite di dettagli per quelle regioni e se salute e cronometri mi reggeranno, spero poter riescire in qualche lavoro utile, senza però troppo lusingarmi di conseguire il mio scopo, cosa che da troppe cose e difficoltà mi sarà contrastata.

Per ora conto fra 40 giorni trovarmi in Ankobar.

SEBASTIANO MARTINI ».

Posteriormente a questa lettera, la Società Geografica Italiana ne ricevette due altre dal capitano Martini, di cui riportiamo il testo della prima, scritta a circa 200 chilom. da Zeila.

« Sarman, 18 ottobre. Per mezzo di una carovana proveniente dall'Harrar e diretta a Zeila, invio la presente, senza speranza che giungerà nemmeno a Zeila; tanto per non perdere l'occasione (se pure, ripeto, questa è una) di far sapere alla Società, come mediante i mezzi forniti da Abubaker e la buona condotta di suo figlio Mohammed, il nostro cammino proceda regolarmente e prometta bene per il seguito per quanto si può contarci in Africa.

A Gundili (stazione non marcata sulla carta nel nostro itinerario), cioè a 40 chilometri da Tull-Harrè, ci aspetta il Gran Scek Somali, Robly Ugas; e là temo, e con me la presentono tutti, una lunga sosta e qualche imbarazzo.

Le piccole tappe fatte fin qui da Zeila, sempre di giorno e con buone guide, mi hanno fatto riscontrare molti errori di nomi e di qualche distanza che ho potuto rilevare e correggere nell'itinerario mio, da Lassara e Zeila.

Si dice che dallo Scioa sia in marcia la carovana del Re; ma Mohammed mette in quarantena la notizia, poichè i Danaki l'hanno data ai Somali, ed i Somali a noi; passaggio di notizie poco rassicurante......

La seconda lettera porta la data di Tull-Harrè 4 novembre e contiene eccellenti notizie. La spedizione era proceduta felicemente fino a quel luogo, ove trovò la carovana di rinforzo dal Martini chiesta al Re Minilek: si aveva buona speranza di giungere presto nello Scioa. Antinori si trovava sempre in buona salute alla stazione di Let-Marefià.

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