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adgredere o magnos aderit iam tempus — honores,
cara deum suboles, magnum Iovis incrementum !
aspice convexo nutantem pondere mundum,

terrasque tractusque maris caelumque profundum;
aspice venturo laetantur ut omnia saeclo!

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ficato di « destino » al cui concetto viene naturalmente ad associarsi l'idea

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di stabilità e di immutabilità. Parcae. È dubbia l'etimologia di questo vocabolo. Alcuni fra gli antichi lo derivano da parcere, fra cui Servio (ed. Lion) che così spiega: dictae Parcaе κατ' avτioрaoiv, quia nulli parcunt. Alcuni moderni, pur ritenendo quest'etimologia, spiegano : « quelle che risparmiano o devono risparmiare la vita ». Varrone invece, secondo Gell., N. A., III, 16, 10, derivava Parcae da partus, ciò che è pure ammesso da qualche moderno che spiega Parcae << dee del nascimento >>. Ad altri pare più probabile accostare Parcae al gr. пóρкоç (da πλεк-?), « rete », per cui Parcae significherebbe « quelle che intrecciano », intendi << il filo del destino ». Cfr. Om., Odyss., VII, 197 Kλŵeç, « le filatrici » Moîpai, le divinità greche con cui furono identificate le Parche dei Romani, dalla rad. κλwe-, filare: inoltre Kiwew era il nome speciale di una delle tre Μοίραι (le altre due erano Λάχεσις ed Ατροπος), αἵ τε βροτοῖσι | γεινομένοισι διδοῦσιν ἔχειν ἀγαθόν τε κακόν τε (Esiod. Theog., 218 seg.). Nella credenza degli antichi non solo presiedevano al nascimento, ma anche alla morte, e quindi non solo ci appaiono come divinità del destino, strettamente parlando, ma eziandio come divinità della vita umana, determinata dai punti estremi della nascita e della morte, che esse, come ci sono talora rappresentate dai monumenti, andavano filando (cfr. fusis del v. prec.), sebbene questa fosse propriamente la funzione speciale di Clotho. 48. adgredere... honores, intendi ubi iam firmata virum te fecerit aetas (v. 37). È chiaro che il poeta affretta nella sua immaginazione l'avvicinarsi del tempo (aderit iam tempus) in cui il fortunato fanciullo, cresciuto negli anni, potrà applicarsi (aggredi) alle cariche più elevate (magnos honores). Il futuro aderit è abbastanza spiegato dalla frase citata ubi... fecerit ecc. 49. deum, plurale pel sing. dei. In simil guisa in Aen., VI, 322, la Sibilla dice ad Enea, figlio di Venere: Anchisa generate, deum certissima proles. suboles è forma ortografica più corretta di soboles. È parola composta. Cfr. sub-oles (subolescere) con proles =pro-oles (rad. al, crescere). lovis incrementum. Mettendo in relazione quest'espressione col v. 7, significa: nova proles, qua Jovis filiorum numerus augetur. Corrisponde del resto al greco θρέμμα Διός, διοτρεφής. Notisi poi la solennita speciale data al verso dalla chiusa con parola quadrisillaba per cui il verso diventa spondaico. Cfr. Georg., I, 221; Aen., II, 68; VIII, 167. Questo verso è ripetuto in Cir., 398. 50. Senso: « vedi scuotersi per la gioia la massa immensa del mondo all'appressarsi dell'aurea età ». convexo... pondere convexa mole convexo caelo. Cfr. Lucr., V, 96: ruet moles et machina mundi; Ovid., Met., I, 258: mundi moles operosa laboret. 51. Il que di terrasque è qui reso lungo dall'arsi. Vedi a questo proposito la mia nota a Georg., I, 153. Cfr. anche Ovid., Met., I, 193; V, 484, ecc. tractus maris mare longe tractum i. e. latum, amplum. Cfr. Aen., III, 138: corrupto caeli tractu; Oraz., Od., IV, 2, 26 seg. in altos | nubium tractus. caelum. Riguardo all'ortografia cfr. sopra la nota al v. 7. — profundum altum. 52. Non ho scritto

o mihi tum longae maneat pars ultima vitae,
spiritus et quantum sat erit tua dicere facta:
non me carminibus vincet nec Thracius Orpheus,

nec Linus, huic mater quamvis atque huic pater adsit,

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laetentur, lezione del codice Palatino e del Gudiano. Il Romano ha laetantur. La prima lezione sarebbe però più conforme alla sintassi dell'età classica. Il porre dopo espressioni analoghe ad aspice, come viden, vi detin, em, in guisa paratattica le proposizioni interrogative indirette col verbo all'indicativo è veramente proprio dei comici dell'età preclassica. Cfr. Plaut., Most., V, 2, 50; Trin., II, 4, 135; Ter., Eun. II, 2, 6 seg. ecc. Ad ogni modo non si può negare la predilezione del poeta per quest'ultima costruzione. Cfr. Ecl., V, 6 seg.; Georg., 1, 57 seg. (ove per altro il cod. Mediceo ha mittat); VI, 779 seg.; VIII, 190 segg. Talora sopprime l'ut. Cfr. Ecl., 1, 66: aspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci. Hai invece il congiuntivo in Georg., III, 250; Aen., VIII, 385. Quanto a saeclo cfr. la nota al v. 5. 53. Il poeta esprime qui con analogo movimento un pensiero opposto a quello di Esiodo, "Epr., 174 seg.: unkέt' ἔπειτ ̓ ὤφεῖλον ἐγὼ πέμπτοισι μετεῖναι ] ἀνδράσιν, ἀλλ ̓ ἢ πρόσθε θανεῖν ἢ ἔπειτα γενέσθαι. tum è la lezione di tutti i principali codici, tra cui il Palatino, il Romano ed il Gudiano. Altri legge tam, colla quale lezione bisognerebbe ammettere una forte ellissi: tam longae ut ea tempora videre possim. È vero che in luogo di longae il cod. Palatino dà longe. Ma fu osservato che quest'avverbio non può avere valore temporale. Cfr. Hand., Tursell., III, 547. Quanto poi all'espressione longae... pars ultima vitae, cfr. Ovid., Met., VI, 675 seg.: longaeque extrema senectae tempora. 54. spiritus è voce spesso usata per indicare l'estro poetico. Cfr. Oraz. Od., IV, 6, 29; Prop., IV [III], 16 [17], 40, ecc. et. E posposto a spiritus. Cfr. la nota ad Ecl.. 1, 34. sat erit coll'inf. è un grecismo frequente nei poeti latini. Sull'uso dell'infinitivo in dipendenza da aggettivi, in luogo del gerundio con ad, o il dativo del gerundio o l'ut o il qui col cong. cfr. Draeger, Hist. Synt., II3, p. 371 segg. Vedi anche la nota ad Ecl., V, 1. dicere. Cfr. la nota ad Ecl., III, 55. 55-57. Osservisi l'impiego di non... nec... nec e cfr. la nota ad Ecl., V, 25 seg. vincet, meglio che vincat, che era la prima lezione del cod. Palatino. huic... huic in luogo di huic... illi oppure alteri... alteri. La stessa licenza trovi in Georg., IV, 84 seg.; Aen., VII, 473 seg.; 506 seg.; VIII, 357; IX, 572; X, 9 seg.; XII, 510 seg. adsit. Questo verbo è spesso usato per accennare l'aiuto che presta la divinità colla sua presenza. È particolarmente usato dai poeti nelle invocazioni. Cfr. Georg., I, 18; Aen., I, 734; III, 116; 395; IV, 578, ecc. Quanto al quamvis, si noti che questa particella esprime, come di regola, una ipotesi soggettiva, senza che vi sia unita l'idea della sua corrispondenza alla realtà. Puoi tradurla per anche se, ancorchè ». Del resto Orfeo e Lino furono due dei principali e più antichi poeti della Grecia, le cui figure ondeggiano tra il mito e la storia. Orfeo era nativo della Tracia e figlio di Apollo (altri lo fa nato da Eagro) e della Musa Calliope; Lino era fratello di Orfeo, ma nativo della Beozia. Sono entrambi personificazioni del canto di cui rappresentano in vario modo la sublime potenza. Orphei è spondeo. Cfr. il greco 'Oppeî. Vedi anche Georg., IV, 545; 553. Calliopea dal greco Kalλíoneia, nome anche usato da Ovid., Fast., V, 80;

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Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo.
Pan etiam Arcadia mecum si iudice certet,
Pan etiam Arcadia dicat se iudice victum.
incipe, parve puer, risu cognoscere matrem :
matri longa decem tulerunt fastidia menses.
incipe, parve puer: cui non risere parentes,

nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est.

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Prop., I, 2, 28, per Calliope (Kaλλionn). 58, 59. Pan. Cfr. la nota ad Ecl., II, 32. Essendo Pane divinità nazionale degli Arcadi, il giudizio di questi, che proclamano la vittoria del poeta in gara con quel dio, assume importanza e solennità maggiore. Si noti poi l'uso del presente in entrambe le proposizioni del periodo ipotetico si certet... dicat, volendosi esprimere una posssibilità. 60. La spiegazione più accettabile

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di questo verso è stata data da Servio (cfr. gli Scolii Bern.): sicut maiores se sermone cognoscunt, ita infantes parentes risu se indicant agnoscere. ergo hoc dicit: incipe parentibus arridere..... ut et ipsi tibi arrideant. Il senso è adunque : « comincia a mostrare alla madre, sorridendole, che la conosci » e non già, come fu da parecchi proposto: << comincia a conoscere tua madre al suo sorriso ». Quest'ultima spiegazione toglierebbe ogni legame tra questo e il verso seg., mentre colla prima si mette innanzi il dolce compenso morale che trae la madre, dopo tanto soffrire, dal sorriso della sua tenera creatura che dimostra di conoscerla. 61. decem... menses è sogg. di tulerunt. Noi avremmo detto nove mesi. Ma in latino (come osserva lo Spengel a Ter., Adelph., 691: menses abierunt decem) si comprendeva nel conto anche il numero sino al quale si contava. Cfr. del resto le nostre espressioni: « otto giorni, quindici giorni ». tulerunt. Si noti la brevità della penultima sillaba. Luciano Müller, De re met., p. 365, osserva che nella poesia scenica e nella poesia popolare era ancipite la misura di -erunt. Tale ci appare in Lucrezio ed in Virgilio. Cfr. Lucr., V, 193; 875, ecc.; Georg., 11, 129; III, 283; Aen, II, 774; III, 48; 681; X, 334. Vedi anche Oraz., Epist., 1, 4, 7; Sat., I, 10, 45. 62, 63. Il primo verso ha dato molto a pensare agli interpreti, per via di un passo di Quintiliano (IX, 3, 8) che ne riporta la seconda parte in modo affatto diverso dalla lezione dei codici virgiliani. La lezione di Quintiliano è qui non risere parentes (il Bonnell a parentes ha sostituito parenti), che egli intende per ex illis, qui non risere per ispiegare il singolare hunc del v. seg. Il senso sarebbe in tal caso:« chi è fra quelli, i quali non han sorriso alla madre (o ai genitori, se si legge parentes. Cfr. Plaut., Capt., III, 1, 21: Neque me rident per arrident mihi), non è reputato degno ecc. ». Certo il senso corrisponderebbe esattamente alla spiegazione che abbiamo dato del v. 60; ma e la durezza e contorsione della frase, e l'accordo dei codici su una lezione affatto diversa, ci dissuadono dall' accogliere la lezione di Quintiliano, non sempre esatto nelle sue citazioni. Preferisco leggere con Servio e coi codici: cui non risere parentes, ritenendo ri sere per arrisere. Cfr. Avien., Doscr. 1121 e sopra al v. 60: risu. Senso: <colui che non fece sorridere gli autori de' suoi giorni ». Il sorriso del bambino che riconosce i genitori provoca a sua volta il sorriso loro. Cfr. la spiegazione di Servio citata sopra al v. 60. nec deus hunc ecc.

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Virgilio vuol dire che chi non seppe far sorridere gli autori de' suoi giorni non è mai stato ammesso alla mensa degli dei, nè al letto d'una dea, con allusione alla leggenda di Efesto (il Volcanus dei Romani), secondo Servio e gli Scolii Bernesi. Essendo deforme e mal visto dalla madre Era (Giunone), fu precipitato da Zeus (Giove) giù dal cielo nell'isola di Lemno, e Atena (Minerva) non lo volle avere per isposo. Ma a me pare che questa spiegazione non regga. Anzi tutto, se Efesto fu precipitato dall'Olimpo, vi fu poi riammesso, e d'altra parte è noto che nell'Iliade Charis è detta sua moglie (XVIII, 382 seg.: Xápis λiñapoκρήδεμνος, | καλὴ, τὴν ὤπυιε περικλυτος Αμφιγυήεις), come in Esiodo Aglaia (Theog., 945 seg.: Αγλαΐην δ ̓ Ηφαιστος ἀγακλυτὸς ἀμφιγυήεις | ὁπλοτάτην Χαρίτων θαλερὴν ποιήσατ ̓ ἄκοιτιν) e nell' Odissea Afrodite (VIII, 266 segg.). lo credo invece che il poeta voglia alludere alle condizioni necessarie perchè un uomo possa elevarsi all'onore di essere assunto in cielo, di essere ammesso alla mensa degli dei ed avere in isposa una dea (cfr. Georg., I, 31 e la mia nota). Per ciò conseguire son necessarii alti meriti (cfr. ciò che dice Orazio, Od., III, 9-16, di Polluce, di Ercole, di Augusto, di Bacco e di Romolo); ma questi non servono a tale scopo, se l'uomo non ha amato sempre e non si è sempre fatto amare dai genitori. È un tratto che rivela l'alta delicatezza di sentire, che è una delle caratteristiche dell' immortale poeta. Perciò devonsi ritenere risere e dignata (est) come perfetti di abitudine. Cfr. a questo proposito la mia nota a Georg., I, 49.

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P. VERGILI MARONIS

BV COLICA

ECLOGA V.

ARGOMENTO.

Due pastori, Menalca e Mopso, s'invitano reciprocamente a dimostrare la propria valentia nel canto. Si recano in un antro ombroso (vv. 1-19). Mopso canta pateticamente la morte del pastore Dafni, spento nel fiore della sua gioventù (v. 20-44). Menalca, dopo di aver rivolto a Mopso parole di encomio, cui risponde Mopso (vv. 45-55), canta alla sua volta l'apoteosi di Dafni (vv. 56-80). I due pastori si lasciano dopo essersi reciprocamente regalati (vv. 81-90).

In quest'Ecloga si ha una specie di carmen amoebaeum: se non che i due pastori non si alternano nel canto esponendo via via, come in brevi strofette, pensieri e sentimenti sempre differenti (cfr. Ecl. III); ma invece cantano l'uno dopo l'altro per esteso sul medesimo soggetto, Mopso in un aspetto, Menalca in un altro. È evidente che il poeta ha avuto sott'occhio particolarmente l'Idillio I di Teocrito (cfr. anche Idill., VII, 73 segg.): ma che abbia voluto, sotto il velo d'un'allegoria, deplorare la morte immatura di C. Giulio Cesare e celebrarne l'apoteosi, non si può provare con validi argomenti; come non si può determinare con precisione il tempo nel quale quest'Ecloga fu scritta. Vedi del resto l'Introduzione.

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