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nalzarono mai, salvo in parte Catullo e Lucrezio, a quella potente originalità, che è spiccatissima caratteristica della poesia greca. Dacchè Roma entrò nell'orbita dell'ellenismo, dacchè l'ammirazione per gli stupendi monumenti dell'arte greca divenne venerazione ed adorazione, dacchè Roma si prefisse di rivaleggiare colla Grecia, non battendo una via propria nell'arte, ma seguendo quella stessa nella quale i Greci avevano impresse orme indelebili, la vera originalità diveniva impossibile: l'imitazione, anche solo nell'aspetto formale dell'arte, produceva i suoi effetti sul pensiero, trasportandolo necessariamente nella cerchia dell'ellenismo. Persino la così detta epica storica, quantunque pigliasse i fatti dal mondo romano, nello sceglierli, nell'ordinarli, nel vivificarli, per presentarli alla fantasia del lettore non già come fossili dissepolti della storia, ma come creazioni viventi, non tradisce manifestamente lo studio dell'epopea e in generale dell'epica greca? E non fu certo piccolo merito de'poeti romani, se, messisi in una via pericolosa, riuscirono, nonostante la palese imitazione dei modelli greci, a imprimere nelle loro opere un'impronta profonda di romanità. Ciò vuol dire, che seppero non di rado assai bene assimilarsi l'arte greca: vuol dire, che seppero, in un lungo lavoro di preparazione, sceverare nelle opere de' Greci gli elementi adatti alla vita ed alla civiltà romana, da quelli che tali non credevan che fossero. La poesia greca era adunque diventata pei Romani publica materies (1), che legittimamente poteva divenire privati iuris, date certe cautele e riserve, dalle quali però a quella indipendenza, in che consiste l'originalità, come la concepiamo noi moderni, la distanza è ben grande. Di guisa che, quando Terenzio nel prologo degli Adelphoe si appellava al giudizio degli spettatori se, introducendo nella sua commedia, che era tolta da Menandro, un luogo dei ZuvaπоevησкoντES di Difilo, egli commettesse un furto o non piuttosto si appropriasse cosa che era stata negletta da Plauto (2), si faceva te

(1) Oraz., Art. P., V. 131.

(2) Cfr. i vv. 6-14.

stimone di ciò che in fatto d'arte sentivano i Romani del suo tempo, che per l'ammirazione e l'imitazione degli exemplaria graeca stanno molto al di sotto dei poeti dell'età augustea.

Non faccia adunque meraviglia che Virgilio abbia così ampiamente imitato e, direi quasi, copiato Teocrito: egli voleva diventare il Teocrito latino, senza scostarsi guari dal modello che aveva davanti; l'imitazione diveniva necessaria: il suo secolo stesso, co' suoi pregiudizî letterarî, gliel' imponeva. L'imitazione tornava certo a scapito della fedele rappresentazione della realtà: ma, badiamo, a molti particolari dell'arte, sui quali noi moderni non possiamo e non vogliamo transigere, non ci si badava punto da' Romani: e però, come, a voler citare un esempio, Plauto non si faceva punto scrupolo di far parlare attori palliati di Campidoglio, di Velabro, di dittatori, di pretori, di edili, di questori e via dicendo; di trasportare insomma in città greche costumi e fatti prettamente romani, anzi di mescolare questi coi greci; così, per converso, in Virgilio, vicino alle rive del Mincio, raccolti in uno i loro greggi, si disputano il premio del canto Coridone e Tirsi, Arcades ambo (1).

Relativamente alle notizie sui principali e più antichi codici contenenti le Bucoliche di Virgilio, mentre io rimando il lettore alla mia edizione delle Georgiche (2) e, per più ampie indicazioni, ai Prolegomena del Ribbeck (3), qui stimo opportuno di notare che, dei sette codici scritti in carattere capitale, che più o meno monchi e malconci sono a noi pervenuti, quattro soli contengono parte delle Bucoliche, e sono il Palatino (P), il Romano (R), il Veronese (V) ed il Mediceo (M), ma in guisa tale, che non è mai possibile per alcuno degli 829 versi, i quali compongono le Bucoliche, avere la lezione di tutti e quattro: più spesso non si può avere che la lezione di due

(1) Ecl., VII, 4.

(2) Nota I, pp. XI-XIII.

(3) Cap. XIII, p. 265 segg. Consulta anche il 5o fascicolo della Paléographie des Classiques Latins di ÉMILE CHATELAIN, Parigi 1887.

codici: di 92 versi non si ha che la lezione di un solo codice (R), come lo dimostra il seguente prospetto dato dal Ribbeck (1):

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P. VERGILI MARONIS

BV COLICA

ECLOGA I.

ARGOMENTO.

Finge il poeta che il pastore Melibeo, cacciato dal possesso de' suoi campi per effetto della distribuzione del territorio Mantovano fra i veterani dei triumviri, mentre prende tristamente la via dell'esilio, spingendosi innanzi un gregge di capre, incontri Titiro, il quale nella generale sventura se ne sta sicuro e tranquillo all'ombra di un faggio. Titiro spiega a Melibeo per qual cagione egli abbia potuto fruire di così eccezionale fortuna e gli narra che andato a Roma, quando già era entrato nella vecchiaia (v. 29) per ottenere la libertà dal suo padrone, non avendo prima, per soddisfare a' capricci di Galatea, potuto mettere insieme il necessario peculio (v. 31 segg.), fu appagato nelle sue brame. Così, essendo state restituite da Ottaviano al suo padrone le terre, che gli erano state tolte, egli rimaneva come vilicus al suo servizio traendo vita beata. All'incontro Melibeo, paragonando mestamente la felicità del vecchio Titiro, che si rimane in patria, colla sventura propria, accenna alla vita errabonda che gli è riserbata, e dà un addio ai luoghi ov'era stato felice. Titiro, poichè s'è fatta sera, lo invita a cenare e passare la notte in

casa sua.

STAMPINI, Vergil. Bucol.

1

MELIBOEVS, TITYRVS.

MELIBOEVS.

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena:

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1 Tityre. L'etimologia di questo vocabolo è dubbia. Nel lessico di Esichio si legge τίτυρος σάτυρος κάλαμος ἢ ὄρνις: al qual luogo M. Schmidt riporta in nota il passo di Eustazio, p. 1157, 38: TítuρOL Awpiκws of oάTupol. Con questa spiegazione s'accorda Eliano, Var. Hist., III, 40: οἱ συγχορευταί Διονύσου Σάτυροι ἦσαν οἱ ὑπ ̓ ἐνίων Títuρoι ovοuaZóμevoi. Cfr. Strab., X, 7, che mette i Titiri fra i Satiri ed i Sileni. E Servio: Laconum lingua Tityrus dicitur aries maior qui gregem anteire consuevit: sicut etiam in comoediis invenitur;_e gli Scolii Bernesi: Tityrus Siculorum lingua hircus dicitur, vel Tityrus lingua Laconica villosus aries appellatur. Se è vera la spiegazione di Servio: aries maior, può forse ammettersi la derivazione del vocabolo dalla rad. tu« crescere, essere grande, aver forza », con raddoppiamento: τίτυρος ; cfr. Τίταν, Σίσυφος. Par certo ad ogni modo che abbia un significato attinente alla vita pastorale e sia quindi un nome adatto a pastori. Cfr. Teocr., Idyll., III. - patulae, da pateo, che distende largamente i suoi rami e perciò produce molta ombra. Cic., de Orat., 1, 7, 28 e Ovid., Met., VII, 622: patulis... ramis; Ovid., Met., I, 106: patula... arbore. Vedi del resto Teocr., Idyll., XII, 8: σkieρhv d'úπò φηγόν. recubans = securus accumbens. tegmine. Cfr. Lucr., II, 663 e Cic., Nat. Deor., II, 44, 112 (Aratea): sub tegmine caeli. fagi. Si è osservato che non crescono faggi nei dintorni di Mantova. Se ciò era a' tempi del poeta, questi poteva però averne fatto crescere nel suo podere, quasi per cospicuo ornamento. Certo egli ne fa più volte menzione. Cfr. Ecl., II, 3; IX, 9. 2. silvestrem... musam = car. men silvestre, pastoricium. Cfr. Ecl., VI, 8: agrestem tenui medi tabor harundine musam. Vedi anche III, 84. Lucr., IV, 587: fistula silvestrem ne cesset fundere musam, ove troviamo appunto musam nel significato di carmen, e V, 1396: agrestis... tum musa vigebat; Oraz., Sat., II, 6, 17: musaque pedestri. Il verbo, meditari vale qui « esercitare ». Il Bréal ed il Bailly nel loro Diction. Etymol. lat. alla voce meditor, p. 185, accettano la derivazione di quel verbo dal greco μeλeTâv, come già stabilivano gli antichi, tra cui Servio, notando che, come le parole μελέτη, μελέτημα erano divenute termini tecnici nelle scuole, nel teatro e nell'arte militare, dovettero passare in tale qualità a Roma e che appunto meditari e meditatio designano ogni specie di esercizi, come appare da Plaut., Pers., IV, 2, 4 seg.; Terenz., Adelph., V, 6, 8; Cic., Brut., 88, 302; Plin., Paneg., 13, 1; Gell., N. A., XX, 5, 2; Plin., H. N., XVII, 19, (30), 137; XI, 25, (30),87 ecc. Confronta sovratutto per questo passo Plin., H. N., X, 29, (43): meditantur [aliae intendi lusciniae]... versusque quos imitentur accipiunt. tenui... avena. L'aggettivo non esprime già il genere umile della poesia bucolica, come pensava Servio, ma è un epiteto d'ornamento equivalente al nostro « sottile »,

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