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Versi rigettati, come intrusi.

Dal L. II fra i versi 75 e 76.

Illae haec, deposita tandem formidine, fatur:
L'astuto alfin pon giù la tema, e dice:

Dal L. IV fra i v. 255 e 256.

Haud aliter, terras inter caelumque, volabat
Littus arenosum ad Lybiae, ventosque secabat,
Materno veniens ab avo Cyllenia proles.
Fra terra e ciel, tal giù fea volo all' Afro
Sabbioso lido, e iva secando i venti,
L'agil, sceso dall'avo, a Maja figlio.

Dallo stesso lib. IV fra i v. 629 e 630.

Namq;suam(nutricem)patria antiqua cinis ater habebat: La sua tenea Tiro natía già in tomba:

Dal L. V fra i v. 652 e 653.

Haec effata.

Cangiò il suo dir la finta nonna in Diva

Versi traslocati. Due dal L. VI.

Soglion essere 743 e 744 ; qui sono 746 e 747.

Versi chiusi fra i crochets, come assai sospetti.
Innanzi al L. I i quattro di Prologo.

Nel L. I il v. 109; indi il v. 426.
Nel L. II i dodici v. da 576 a 587.
Nel L. VI il v. 242.

NOTE GIUSTIFICATIVE

SOPRA LA SCELTA DI LEZIONE O DI SENSO

ne' passi oscuri o contrastati.

I

quattro versi di Prologo, che pajon farla da Virgiliano sigillo apposto all'Eneide, come gli otto di Congedo alle Georgiche, o non son dell'Autore, o sono un suo scherzo, non certo Omerico, a ragion cacciato in disparte da Vario e Tucca. Ch'io al Gratum opus agricolis sostituisca Lavoro Ascreo parmi a dir poco da perdonarsi. Quell' Epifonema dopo il vicina coegi Ut quamvis avido parerent arva colono è una conseguenza così necessaria da non doversi enunciare: quest' Aggiunto al contrario è una rapida allusione al v. 166 G. II. Ascraeumque cano Romana per oppida carmen. Se ti par che troppo mi scosti, leggi: Carme che il bea.

AL LIBRO I.

V. 2.

Italiam... Lavinia... Littora. al Latin regno

Questo Lavinia, adottato dalla Stereotipa di Didot, benchè riprovato da Servio, mi sembra e più latino e più eroico che il Lavinaque delle comuni edizioni. Ma quel mio al Latin regno (regno, che è appunto l'anima del poema) non è men felice.

v. 5.

dum conderet urbem, Inferretque deos Latio: Qual fu il nome dato da Enea alla città che piantò, ut inferret deos Latio? si suol dire Lavinio. Ne dissente Saverio Mattei in una Eser

citazione eruditissima (benchè la stampasse in età di soli quattor dici anni) intitolata de Ficu Ruminali, Alba, et Ara Maxima. Della parte qui interessante de Duplici Alba ne accennerò i punti principali nella nota al v. 393 del L. III, 157 L. VII, 46 L. VIII. S'ascolti intanto come conchiude: Suem Albam invenit Æneas, et eodem loco statim Albam erexit. Triginta foetus enixa fuerat, triginta post annis Ascanius aliam urbem extruxit: hanc autem in illius memoriam Albam nuncupavit, et quidem Albam Longam. Prior autem illa Alba, quae ad ripas Thyberis posita ipsi (fluvio) Albae quoque nomen dederat, mox respectu Longae Albae quum Albula dici coeperit, Thyberis quoque Albula dictus est. Quest'ultima erudizione per altro mal combina con quella, che dà ad Enea il Re degli Arcadi Evandro v. 350 L. VIII: Tum reges, asperque immani corpore Thybris, A quo post Itali fluvium cognomine Thybrim Diximus; amisit verum vetus Albula nomen. L'Albanique Patres del v. 7 l'interpreta il Mattei per i proavi che abitarono l'Alba di Enea, quasi dicasi dum conderet Albam.

v. 6.

genus unde Latinum, onde i Latin già Teucri, La genia Latina già v'era: onde a dir cosa nuova vi va sottinteso Teucrorum in Latio degentium. Cosa veramente nuova, che il vincitore prenda il nome dal vinto. Giunone lo chiese a Giove v. 823 L. XII. Ne vetus indigenas nomen mutare Latinos, Neu Troas fieri jubeas, Teucrosque vocari, Giove l'accordò. Do quod vis, v. 855; indi faciamque omnes uno ore Latinos. Hinc genus, Ausonio mixtum quod sanguine surget, v. 857 e 858.

v. 3o.

Troas relliquias Danaúm atque immitis Achillei Dunqu' ella i Troj, del greco Marte avanzi, Bel vanto d'Achille essere citato a coda de'Greci individualmente, quasi ne valesse egli solo un altro esercito. Ma qui non ha oggetto che di riempire, non potendosi per anche aggiungere, come al

v. 597, terraeque marisque. Del resto potea dirsi con verso meno armonico: Dunqu' ella i Troj, de' Graj d'Achille avanzi, v. 76.

Tuus, o regina, quid optes Explorare labor;

Il ben librar che brami, Regina, è tuo;

Mal si spiega da molti questo explorare per indicare (così il Caro: A te, Regina, Conviensi, che tu scopra i tuoi desiri) quando vuol dire ben misurare: veder, se sia giusto, se torni a profitto.

V. 109.

[Saxa vocant Itali, mediis quae in fluctibus, Aras,] Parmi un'erudizione più da nota che da testo, massimamente in mezzo all'impegno d'una si orrida descrizione.

v. 258.

cernes urbem et promissa Lavini Moenia,

Nessuno abusi contro il Mattei di questo passo a favor di Lavinio (V.N. al v. 5). Lo proverebbe città primaria da Enea piantata, ma non già prima. Inoltre benchè affermi Servio: videtur figuratè dictum urbem et moenia, quia diversis idem significavit ( dal qual comento trassi la versione: vedrai sorger Lavinio e il lustro Vantar promesso); pur direbbe il Mattei che il cernes urbem fa intendere la prima Alba, come il conderet urbem. Or quest' Alba metaforicamente dicasi Troja, qual fu detta L. IX v. 659 Nec te Troja capit; e può tradursi: vedrai Troja e Lavinio il cinto Vantar promesso. v. 323, 324.

Succinctam pharetra et maculosam tegmina, lyncis Aut spumantis apri cursum clamore prementem. Faretrata, succinta, in pelle occhiuta,

Che a gran clamor lince o fier apro insiegua? Universalmente il v. 323 così vien letto Succinctam pharetra et maculosae tegmine lyncis, perchè poco o nulla si bada all' Aut iniziale del v. 324, che in questa lezione resta inoperoso. Io dunque VIRGIL. Eneid. Tom. 1.

me ne valgo a legare lyncis con apri, come un simile aut in Orazio lega lyncas con liones (L. II alla fine dell'Ode 13: Nec curat Orion leones Aut timidos agitare lyncas). S'aggiunge che Venere, chiedendo al figlio novella d'una sua compagna che finge sbandata, dovea naturalmente indicargli, quanto precisa l'armatura e la veste, tanto dubbia la belva che forse inseguiva. A togliere il Caro la superfluità di quell' aut, mal prende il partito d'egualmente premetterlo a tutti gl'indizii: o ch'aggia l'arco al fianco, O che gli omeri vesta d'una pelle Di cervier maculato, o che gridando D'un zannuto cignal segua la traccia!

v. 426.

[Jura, magistratusque tegunt, sanctumque senatum.] [Dan seggio a Temi, e a' maestrati, e a'padri.] Qui pure è mia la variante, dove, cangiando sola una lettera, sostituisco tegunt a legunt. Non era da fabbri in un governo despotico il far la scelta de' giuristi, de' ministri agli ufficj, de' senatori; ma soltanto il porli a coperto nelle respettive lor sale. Chi disapprova anche la medicatura del tegunt, ometta il verso.

v. 608.

polus dum sidera pascet, d'astri s'ammanti il cielo, Il pascet non mi parea da tenersi, benchè sia bello in Virgilio, perchè nasce da Lucrezio v. 230 L. I. Unde aether sidera pascit. Parlava Lucrezio nell'opinion di coloro, che credeano fuochi le stelle, bisognosi di pascolo, che traesser dagli umori del mare e dai vapori della terra, come riferisce Cicerone L. II de nat. deor. v. 636.

Munera laetitiamque dii.

Largo Liéo, che l'almo giorno allegri.

Quest' emistichio si vuol da molti incompleto di senso, come l'altro (340 del L. III) Quem tibi jam Troja... Il dii val diei per crasi dell' ei; val lo stesso il die per sottinteso i soscritto alla greca. Si spiega: donativi e allegrie da consumarsi quel di, quando

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